L’anomalia, tutta italiana, della presenza millenaria del Vaticano all’interno del territorio nazionale costituisce, da sempre, un peso enorme nella politica e nella società italiana. Con la presa di Roma nel 1870 l’Italia cancellò dall’Europa una delle più ottuse monarchie assolute dei tempi moderni, che motivava la sua intolleranza e il suo dominio sulle coscienze e sui corpi con la pretesa che il papa-sovrano fosse il “vicario del figlio di dio”. Il governo italiano, che quel giorno avrebbe dovuto cancellare per sempre anche i privilegi della chiesa cattolica, con la legge delle Guarentigie invece diede subito inizio alla lunga serie di concessioni economiche e legislative al Vaticano culminata in anni recenti nel vergognoso imbroglio dell’8 per mille.
Infatti nel 1871, per superare l’ostracismo della Chiesa che rifiutò di riconoscere l’unità di’Italia e proibì ai cattolici di partecipare alla vita politica nazionale, il governo firmò la Legge delle Guarentigie (garanzie legali) che regolò unilateralmente i rapporti con la Chiesa, riconoscendo l’autorità religiosa del Papa, l’uso del Vaticano, del Laterano e di Castel Gandolfo e fissando l’assegno mensile o “congrua” per i membri del clero, che integrava le offerte dei fedeli per renderle adeguate alle necessità delle parrocchie e veniva progressivamente rivalutato. La legge delle Guarantigie non venne mai riconosciuta dalla Santa Sede, che non accettava il ridimensionamento dei propri territori e delle proprie competenze politiche. Solo l’11 febbraio 1929, in seguito alla mediazione dei gesuiti e del segretario di stato Gasparri, Pio XI firmò con Mussolini i Patti lateranensi, spianando così la strada al fascismo.
L’ex ateo e anticlericale Mussolini, convinto che la religione poteva essere utile allo Stato, affermò che la tradizione imperiale era stata ereditata dalla Chiesa di Roma; era Roma che aveva reso il cattolicesimo universale, la capitale dell’impero era sacra e il cattolicesimo poteva integrare il fascismo. Affermò che il Papa era un valore aggiunto per i sogni imperiali italiani e la Chiesa sostenne le sue imprese coloniali italiane di Libia ed Etiopia. Mussolini condivise con la Chiesa le idee d’autorità, ordine e gerarchia, inasprendo la lotta al liberalismo, al socialismo ed al comunismo.
Regime e Chiesa cattolica trovarono un comune fronte d’azione nella lotta contro la “donna emancipata” emersa dal primo dopo-guerra in cui le donne cominciavano ad avere capelli più corti, vestiti sul ginocchio, a girare in bicicletta, a guidare le prime auto e a fumare le prime sigarette: contro di loro si scagliò la stampa cattolica e quella fascista indicandole come tipiche rappresentanti della “sterilità” decadente delle società occidentali. Il regime impose la “nuova italiana”, fisicamente sana perché irrobustita dall’attività sportiva e votata alla vigorosa riproduzione della stirpe, fissandola nel ruolo tradizionale di madre e sposa. In piena sintonia con i dettami Vaticani il nuovo Codice penale, varato dal ministro Rocco nel 1930, inserì l’aborto tra i reati “contro l’integrità e la sanità della stirpe” e considerò reato penale l’adulterio femminile, escludendo dalla pena quello maschile.
Il nuovo papa Pio XI (1922-1939) ottenne riconoscimenti, privilegi e la libera nomina dei vescovi in tutta Italia. In cambio, per compiacere al regime, provocò lo scioglimento del partito cattolico di Don Sturzo e appoggiò, in modo più o meno velato, sia il fascismo (chiamò addirittura Mussolini “Uomo della Provvidenza”) che il nazismo.
Volti alla definizione della questione romana, i Patti lateranensi si componevano di due provvedimenti distinti: il trattato, che riconosceva l’indipendenza e la sovranità della Santa Sede e fondava lo Stato della città del Vaticano, e il concordato, volto a regolare le relazioni civili e religiose tra Chiesa e Stato italiano. Il trattato riconosceva al papa la medesima dignità attribuita ai capi di Stato stranieri e dava ai Patti lateranensi la stessa valenza giuridica dei trattati internazionali tra Stati sovrani. Da questa deriva la facoltà di mantenere un corpo privato di sicurezza al servizio della Curia – le guardie svizzere – e soprattutto l’extraterritorialità della Città del Vaticano e l’inefficacia della legislazione italiana sul suo territorio, nonché la conseguente possibilità di emettere leggi aventi validità sul suolo vaticano. Il trattato escluse ingerenze del governo italiano nella politica della Santa Sede ma non escluse il contrario.
Con il concordato, il regime fascista definì l’insegnamento cattolico fondamento e coronamento di tutta l’istruzione, riconobbe le festività stabilite dal Vaticano e vietò a Roma le manifestazioni in contrasto con il carattere sacro della città. Si riconobbe validità civile al matrimonio celebrato secondo il rito cattolico e si proibì il divorzio (tale legge rimase in vigore fino al 1970!).
La religione cattolica assurgeva a religione di Stato, il cui sostentamento spettava alla collettività; la libertà di professare altre religioni veniva fortemente limitata, era vietato il diritto di fare proselitismo.
La convenzione finanziaria formalizzava l’istituto della congrua, come forma di finanziamento annuale da parte dello stato al clero cattolico, prevedeva un cospicuo risarcimento per i danni subiti dal pontefice a seguito delle espropriazioni territoriali, con il versamento nelle casse vaticane dell’enorme cifra, per allora, di un miliardo e settecentocinquanta milioni di lire, il tutto esente da imposta. Ulteriori privilegi furono concessi ai patrimoni ecclesiastici considerati “divini” e pertanto esentasse.
La Chiesa stipulò concordati con tutti i regimi fascisti e nazisti dell’epoca, ottenendo privilegi e favori in cambio di sostegno più o meno tacito o espresso alle loro dittature: nel 1929 con Benito Mussolini, nel 1933 con Adolf Hitler, nel 1940 con il dittatore portoghese Antonio Salazar, nel 1953 con Francisco Franco in Spagna.
Alla caduta del regime fascista i Patti Lateranensi non furono affatto abrogati: l’enorme peso politico raggiunto dalla Chiesa cattolica e dal Partito popolare come rappresentante dei suoi interessi in seno alle istituzioni fece approvare, anche con i voti del Pci, l’articolo 7 della Costituzione che da una parte definisce lo Stato italiano e la Chiesa, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani e dall’altra riconosce e legittima i Patti lateranensi quale fonte normativa volta alla regolamentazione dei reciproci rapporti, confermando di conseguenza gli equilibri posti dal regime fascista e le garanzie attribuite da esso alla Curia. Se è pur vero che l’articolo 8 introduce la libertà di culto, stabilendo che tutte le confessioni religiose sono libere di fronte alla legge, si tratta nella realtà di una libertà puramente teorica, dal momento che la religione cattolica si configurava de facto religione di Stato; non solo perché materia scolastica obbligatoria nella scuola pubblica, ma soprattutto perché godeva di quei contributi statali, negati alle altre confessioni, che ne garantiscono la prosperità.
Dopo numerosi tentativi falliti, fin dal 1967, il Concordato fu rivisto dal governo Craxi con l’Accordo fra Stato e Chiesa del 1984. Il matrimonio civile venne svincolato da quello religioso, anche se quest’ultimo continuò a mantenere validità civile, il cattolicesimo non era più religione di stato, e quindi non più obbligatoria nelle scuole anche se l’Italia si impegnò ad “assicurare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado” e chi non voleva avvalersene doveva chiedere formale esonero. Con la legge 222/85, di applicazione dell’intesa finanziaria, si configurò un sistema di finanziamento pubblico affidato alla gestione della Conferenza episcopale italiana, Cei: un autentico finanziamento dello Stato che copriva non solo le spese del sostentamento dei parroci, come ai tempi della congrua, ma l’intera attività della chiesa cattolica. Fu introdotto il famoso “OTTO PER MILLE” delle imposte da destinare alla Chiesa, un fiume di soldi che cominciò a fluire nelle casse della Cei a partire dal 1990. Questa concentrazione nelle mani della Cei dei poteri di gestione del finanziamento non aumentò solo il controllo sul clero a livello centrale, ma fece della sua Presidenza, del suo Presidente in particolare, un soggetto economico forte all’interno della comunità ecclesiale capace di condizionare anche le attività e gli orientamenti di gruppi e singoli per la discrezionalità di cui gode nell’elargizione di contributi. Per avviare questo processo di ristrutturazione interna nel 1986, quando le finanze vaticane erano vuote e in crisi, Woijtila chiamò a dirigere la CEI l’allora vescovo di Reggio Emilia, Camillo Ruini, dotato di talento manageriale, che in meno di vent’anni trasformò la CEI stessa in una potenza economica, mediatica e politica, assumendo un ruolo centrale nel dibattito pubblico italiano e all’interno del Vaticano.
Se l’ingerenza cattolica nella vita pubblica, politica e culturale italiana è palese, è molto difficile “fare i conti in tasca” al Vaticano: prendendo in parte spunto sia dagli articoli di Curzio Maltese su Repubblica del 2007 sia dai calcoli di Piergiorgio Odifreddi in “Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)”, la somma totale che ogni anno lo Stato Italiano elargisce alla Chiesa cattolica e agli enti ad essa legati, fra finanziamenti diretti e mancati introiti fiscali, supera i 5 MILIARDI DI EURO L’ANNO (escludendo i fondi destinati al sostegno degli organismi cattolici di carità o impegnati nella cooperazione allo sviluppo) ossia l’equivalente della Finanziaria 2011 di 5,7 miliardi di euro.
Questo articolato e complesso sistema di finanziamento non è paragonabile con nessuno dei sistemi in vigore nei paesi europei, né nei länder luterani tedeschi o in Inghilterra dove la chiesa è di Stato, né nei paesi cattolici come Spagna, Portogallo e Belgio dove pure sono previste forme di finanziamento diretto alla Chiesa cattolica: in nessuno di questi ultimi, si raggiungono forme così capillari di integrazione fra politica e religione e costi così esorbitanti.
Articolo stupendo, condivido subito!