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Tutte le ragioni di Nerino

di Monica Perugini (Lista Sommosse)

dopo l’intervista alla stampa locale alcune considerazioni sulla vicenda della chiusura dell’OMSA di Faenza

Leggendo l’intervista che Nerino Grassi, titolare del gruppo Golden Lady proprietario dello stabilimento OMSA di Faenza chiuso per delocalizzare in Serbia,  ha rilasciato ad un quotidiano locale (dopo aver disdetto, pochi giorni fa, l’intervista a RAI 3), si può dagli torto su tutto, ma non sul fatto che la “pratica OMSA”  sia stata concordata e avvalorata da tutte le parti sociali, sindacati compresi,  oltre 5 anni fa. Del resto il primo stabilimento serbo era stato inaugurato sette anni orsono e di ciò dovrebbe ricordarsene bene, per esempio,  l’ex sindaco di Faenza (vi lascio indovinare di che partito fa parte…) invitato e accompagnato all’evento dallo stesso padron Nerino sul suo jet privato.

Tutti sapevano, compresi i sindacati dei lavoratori e,  dice bene quindi Grassi, anche le lavoratrici. Allora perché tanto stupore? Perché lamentarsi che il licenziamento, mera prassi burocratica conseguente a procedure intraprese per tempo, sia stato spedito via fax al sindacato e non alle operaie coinvolte che, aggiunge il padrone dipinto con colori positivi dalla versione locale di una stampa tutt’altro che d’assalto,  non potevano non conoscere? E difatti ha ragione, Nerino, a parlare così:   in casa sua tutto torna. I conti, perché come sempre li ha fatti giusti e la legge che gli da’ ragione. Quello che non torna, oltre ovviamente ai conti delle operaie che fra poche settimane saranno a casa disoccupate,  è il comportamento del sindacato che si trova in una situazione a dir poco imbarazzante. Sempre che se ne renda conto.

In una situazione oggettiva, da qualsiasi parte del globo,  coloro su chi grava la responsabilità gestionale di importanti controversie sindacali, dovrebbero  porsi il problema di sollevare dall’ incarico chi ha seguito la vertenza in questi ultimi, lunghi cinque anni. O meglio ancora,  dovrebbe rimeditare una politica che ha condotto all’angolo la classe operaia.

Cosa si pensava potesse avvenire col trascorrere del tempo, in casa CISL e UIL ma anche alla CGIL, al sopraggiungere della cassa straordinaria e quindi di mobilità e licenziamento? Un miracolo? O più facilmente che le operaie, come è accaduto nei moltissimi altri casi dove la rassegnazione e la resa hanno preso il sopravvento, si dimenticassero del significato che hanno lavoro, dignità, diritti, coscienza. Accettassero senza proferir verbo, quella che viene dipinta come una conclusione inevitabile,  contro la quale non c’è nulla da fare?

Di chi sono allora le responsabilità? La maggior parte del padronato che, leggendo le parole di Grassi,  si capisce non avere la benché minima idea di cosa significhi la “responsabilità sociale dell’impresa” di cui parla la Costituzione e di cui anche la legislazione ordinaria dovrebbe disciplinare,  per conoscere invece assai bene cosa significhi e come si faccia,  a massimizzare il profitto, sfruttando all’inverosimile uomini e donne che lavorano per il salario e la propria dignità,  per poi lasciarli a casa,  se all’orizzonte si profila un calo degli introiti.

Ma la restante  quota di responsabilità è da ripartire col sindacato che ha condotto le trattative, conseguendo di fatto un solo risultato, quello di ingannare la classe operaia, condannandola.

E poiché al peggio non c’è mai fine… i sindacati non si sono accontentati di aver gestito la “pratica” tifando per una parte sola (quella del padrone),  ma si sono superati, giungendo a guidare le (prime) lotte contro la chiusura dello stabilimento romagnolo.

Le condizioni attuali della lotta, infatti, sono mutate:  tranne una parte (limitata e di base) della CGIL, il resto dei confederali non prende posizione a favore delle licenziate, anzi attaccata il boicottaggio dei marchi Golden Lady e tenta di mettere il silenziatore alla lotta, in nome di una difesa locale del posto di lavoro che potrebbe sicuramente essere perorata  al meglio con  una presenza più efficace, attenta ed intransigente del sindacato nei luoghi del conflitto. Evidentemente gli errori non hanno insegnato nulla. Oppure non possono farlo, essendo ben altri gli obiettivi che la politica del funzionariato, usurpando non solo il nome, ma  l’essenza stessa del concetto di sindacato,  sta perseguendo.

E così la lotta  diventa spontanea, auto organizzata da operaie che si sono re – inventate attrici di strada, di un teatro, appunto,  che un tempo si chiamava operaio e che oggi lo è più che mai.

Di ciò, tuttavia, non si può andar fieri, giacché la lotta contro un padronato ed un capitalismo sempre più avidi e spietati, padroni di tutte le leve del potere politico, economico e sociale, può essere intrapresa con qualche possibilità di vittoria, solo se esiste un sindacato di classe forte e non compromesso, insieme ad un partito di classe altrettanto forte ed autonomo.

Al fianco delle lavoratrici OMSA ci sono le operaie, le sindacaliste di base della CGIL, i collettivi delle donne, i gruppi auto organizzati di operaie e operaie di altre realtà in lotta dell’Emilia e non solo che hanno amplificato e reso tangibile la lotta intrapresa col boicottaggio dei prodotti del marchio Golden Lady.

Il contesto istituzionale, sociale e politico che ha proposto e condiviso tutte queste regole, come poteva non sapere che  la fine della fabbrica faentina era stata concordata,  o meglio concertata,  talmente bene da divenire inevitabile epilogo di quella che Grassi tratta per quello che è, una “procedura”,  avviata per tempo e a regola d’arte.

Tutti sapevano, dunque sindacato compreso, perché allora protestare?  Questo dice Nerino. E dice il vero, dato che in Italia non esistono leggi che vietano di de localizzare, come non impngono di nazionalizzare aziende che hanno prosperato grazie ai finanziamenti pubblici diretti ed indiretti. Anzi ne esistono di ben diverse….

Quante esperienze concrete in questi due anni, sia pure dai differenti contorni, hanno percorso la stessa strada, seguendo la stessa dinamica?

Una cosa è da chiarire, le operaie dell’Omsa,  così come quelle della SISI e di Gissi, della Pompea, come i lavoratori della Sogefi (la spa di proprietà della tessera n. 1 del PD Di Benedetti che ha chiuso per delocalizzare nonostante i profitti alle stelle),  i lavoratori della Pansac  (altro fiero rappresentante dell’imprenditoria mantovana che i suoi concittadini volevano fare sindaco prima che lasciasse sul lastrico 1500 persone), delle cooperative fucine di sfruttamento e disservizi  e delle tante altre realtà che hanno condotto,  in tutta Italia, dure lotte per salvare il posto di lavoro,  non hanno nessuna colpa.

I lavoratori si sono fidati di un sindacato che avrebbe dovuto rappresentarli e difenderli e  a cui avevano assegnato mandato.

I funzionari sindacali, insieme ai loro massimi dirigenti,  non sono mai stati sfiorati dall’idea che l’eterna mediazione al ribasso, l’accettazione dei diktat imposti dal partito democratico, prima di governo e poi di “finta opposizione”, a prescindere dalla prospettiva di privare un paese intero della sua forza produttiva e quindi della sua ricchezza e possibilità di crescere, avrebbe portato la classe operaia e i ceti in via di proletarizzazione al tracollo,  in un contesto geopolitico che vede nella globalizzazione il braccio armato di una politica economica che si ferma allo stop della speculazione finanziaria?

Da tempo i lavoratori non si iscrivono più ad alcun sindacato, i giovani non ne vogliono sapere e quando sei espulso da un sistema produttivo che sta scomparendo, della tessera non hai più bisogno… Non hanno contatto coi funzionari di categoria che dovrebbero seguirne gli interessi e vedono nel sindacato una versione  riveduta, ma non corretta, di quanto accade nei partiti. Il giudizio, dunque, è solo negativo.

Hanno torto? Io dico di no, anche se sovente la risposta che viene data è superficiale, non politica, individualista, a volte anche razzista.

E come potrebbe essere diversamente se i capisaldi di ciò che avrebbe dovuto garantire  significato e coscienza di classe, si sono smarriti nella pantomina della concertazione, che ha garantito la pensione a buona parte di una dirigenza sindacale che avrebbero dovuto dar battaglia in tempi lontani e non a sfacelo compiuto.

Per tutti gli altri, invece, la pensione è ora un miraggio.

Del resto chi fra questi ha lottato e tenuto coerentemente nel tempo, una condotta responsabile e veramente di parte, (quella giusta, degli operai) è stato emarginato, promosso/rimosso o comunque messo nelle condizioni di non disturbare il manovratore.

E ancora una volta ed anche questo riguardo è proprio la vicenda OMSA ad insegnare!

Posted in anticapitalismo, crisi/debito, iniziative, pensatoio, precarietà, resistenze, storie di donne.