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Quando si parla di donne e povertà, nel Vecchio Continente

Un’amica ci ha segnalato questo interessante articolo di Christiane Marty, economista francese, femminista, coanimatrice della commissione di Attac “Genre e mondialisation”. Lo condividiamo con voi qui sul blog, nella speranza che possa contribuire alla riflessione e alla discussione su crisi, debito e lotte sociali. 

La crisi finanziaria, economica e sociale ha effetti molto negativi su tutta la società, ma ha ripercussioni particolarmente gravi sulle donne, nel mercato del lavoro e nella vita privata. Dappertutto, come vedremo, le donne sono le più esposte alla precarietà sul lavoro, al licenziamento, alla povertà, e le meno garantite dal sistema di previdenza sociale. Nei periodi di recessione, le persone già minacciate dalla povertà, dunque in maggioranza le donne, diventano ancora più vulnerabili, soprattutto quelle oggetto di discriminazioni multiple: madri single, giovani, anziane, immigrate, minoranze etniche…

Le politiche di austerità messe in atto in Europa fanno pagare la crisi ai/alle salariati/e pensionati/e, disoccupati e disoccupate, ecc, risparmiando i veri responsabili, le grandi banche e la finanza.
Ma c’è un’ingiustizia in più che va citata: ignorando qualsiasi analisi relativa agli effetti differenziati della crisi su uomini e donne, non solo queste politiche non fanno niente per correggerli, ma li aggravano.
I tagli ai bilanci pubblici avranno dunque come effetto l’aumento delle ineguaglianze, la disoccupazione femminile, la femminilizzazione della povertà, la precarizzazione del lavoro, in particolare quello femminile, il loro lavoro invisibile tra le mura domestiche. All’inefficacia delle misure governative, si aggiunge una doppia ingiustizia.

Questo testo si propone di mettere in evidenza questi elementi, in particolare nei Paesi europei.
E’ un primo lavoro quadro, che non pretende di essere esaustivo. Gli effetti dell’austerità in alcuni settori sono trattati in maniera più elaborata, altri sono descritti più genericamente, per mancanza di dati di genere. Ma è indispensabile che questo ambito venga divulgato il più possibile, non per considerare le donne come vittime ma perché esso dimostra con forza l’ingiustizia di politiche che colpiscono duramente popolazioni già in condizioni di ineguaglianza.
Il potenziale di mobilitazione delle donne, ma anche degli uomini, sarà più forte dei piani d’austerità e i suoi effetti di genere conosciuti da tutti. Le donne sono attrici indispensabili nei movimenti sociali e nella costruzione di alternative alle politiche attuali. Devono dire la loro, fare  proposte e farsi ascoltare.

Dire che le donne devono far ascoltare, lungi dal rinviare ad una posizione essenzialista, conferma una realtà: il lavoro di responsabilità famigliare, dei bambini e delle persone non autosufficienti, e più generalmente dell’economia di cura, porta direttamente a misurare le carenze o gli arretramenti nei servizi pubblici, nella protezione sociale e nella soddisfazione dei bisogni sociali fondamentali.
Se, per tornare ad una massima conosciuta, l’esistenza determina la coscienza, le donne possono avere un punto di vista e priorità differenti nelle risposte da dare alla situazione attuale, nella scelta dei contenuti della produzione, nella maniera di organizzare le cure, la sicurezza sociale, il benessere collettivo, e la partecipazione democratica dei cittadini alle decisioni.
Di fronte all’ampiezza ed alla persistenza della disuguaglianza tra i sessi, di fronte all’impatto estremamente negativo della crisi, ai suoi effetti sulle ineguaglianze, e tenuto conto dell’inefficacia delle politiche condotte, le alternative da costruire devono mirare a garantire giustizia economica e sociale tra i sessi…., che è una delle migliori misure del livello di progresso raggiunto da una società.

In Europa, come dappertutto, gli uomini e le donne non hanno lo stesso posto nel mercato del lavoro e nella sfera privata in ragione delle ineguaglianze di genere: maggioranza di occupazione femminile nei lavori informali, precari e a basso salario, e sottorappresentazione a tutti i livelli del processo di decisione nel settore economico. Da questa differente situazione dipende l’impatto differente della crisi su uomini e donne.

Le donne sono toccate più duramente, in maniera diversa: il dato è fornito da organismi internazionali come il CSI, la Confederazione sindacale internazionale, il CES, la Confederazione europea dei sindacati, l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, e il Parlamento europeo.
“La crisi aggrava la posizione tradizionalmente sfavorita delle donne”, osserva CSI in un rapporto del marzo 2011 (1) “Vivere nell’insicurezza economica: le donne ed il lavoro precario” che disegna un quadro cupo della condizione femminile nel contesto della crisi.
La CSI ricorda che la prima fase ha lasciato 27 milioni di persone senza lavoro, ed insiste sull’esistenza di una seconda ondata di ricaduta negativa sul lavoro e  che riguarda particolarmente le donne, tuttavia è poco presente nelle statistiche ufficiali e nelle politiche governative.
“L’impatto della crisi sull’occupazione femminile tende ad essere sottovalutato e non fa notizia. Tuttavia, in generale, le donne sono le prime toccate dall’insicurezza e dalla precarietà crescenti del lavoro.”.
Il rapporto attira l’attenzione anche sul fatto che gli indicatori standard e i dati utilizzati per misurare l’evoluzione dei mercati del lavoro non arrivano a considerare l’ampiezza della crescita dell’insicurezza economica che colpisce le donne, e che i dati specifici sulla condizione femminile sono troppo spesso lacunosi.
La stessa Commissione europea, paradossalmente, sottolinea con espressione sottile: “ la crisi attuale fa temere che i progressi compiuti in materia di uguaglianza uomo-donna siano in pericolo e che gli effetti della recessione rischiano di toccare particolarmente le donne.”.

Conseguenze della crisi sul lavoro
Anche se le situazioni variano secondo il paese ed i settori di attività, l’impatto della crisi sul lavoro  presenta eguali tendenze a livello mondiale: aumento del tasso di disoccupazione, forte sviluppo del lavoro precario ed informale, aumento del numero di lavoratori e lavoratrici poveri, limitazione globale degli aumenti salariali, cioè abbassamento dei salari. Esaminiamo queste tendenze e le conseguenze generate.

Disoccupazione e sottoccupazione:
A livello mondiale, secondo il Boureau International de Travail, il tasso di disoccupazione degli uomini è aumentato tra il 2007 ed il 2009 di 0,8 punti passando da 5,5 a 6,3 per cento, e quello delle donne è aumentato di un punto passando dal 6 al 7 per cento.
Nel 2010, i due livelli di disoccupazione si sono avvicinati con un tasso del 6,5 % per le donne e del 6% per gli uomini. La CSI nota che le statistiche della disoccupazione indicano globalmente che l’impatto della crisi sulla disoccupazione è stato in negativo quasi pari per uomini e donne, ma che “ il debole tasso di occupazione femminile, la concentrazione delle donne nei mestieri meno pagati, informali o vulnerabili e l’insufficienza di protezione sociale fanno sì che esse siano più esposte degli uomini alla crisi.”.
Nei paesi industrializzati, sono i settori in cui gli uomini sono maggioritari ad essere stati toccati  all’inizio dalla crisi: la fabbrica, l’industria delle automobili, i trasporti (ricordiamo che si tratta dei settori di occupazione a prevalenza maschile dove si sono concentrati i piani di rilancio economico).
L’aumento del tasso di disoccupazione è stato dunque tra il 2007 ed il 2010 in media più alto per gli uomini, e la loro disoccupazione ha superato quella delle donne. In effetti, è passata da 5,5 a 9,3 %, cioè un aumento di 3,8 punti, quello delle donne da 6 a 8,2% ossia + 2,2% punti ( cifre OIL).

In questi paesi, le lavoratrici a tempo parziale hanno subito riduzioni nella durata del lavoro e della remunerazione.
Ma le statistiche sulla disoccupazione pubblicate non rendono pienamente conto di questa tendenza perché definiscono come richiedenti lavoro “le persone senza lavoro che cercano un lavoro” (A). Le persone sottoccupate ( categoria B e C: in attività ridotta, persone che vorrebbero lavorare di più), in maggioranza le donne, non compaiono dunque nelle cifre ufficiali della disoccupazione. D’altronde, si constata che in certi paesi  le donne si ritirano  dalla popolazione attiva come reazione all’assenza di lavoro. Cosa che contribuisce ugualmente ad una sotto-valutazione degli effetti della crisi sulla disoccupazione femminile.
Nell’Unione europea a 27, i tassi di disoccupazione di donne e uomini si sono quasi equiparati nel 2009: lo scarto tra i due tassi che, nel 2000, era di 3 punti a sfavore delle donne, è descresciuto, si è annullato nel 2009 e tale è rimasto nel 2010: il livello di disoccupazione si colloca al 9,6 % tanto per donne quanto per gli uomini.
Queste medie mascherano situazioni diverse: la disoccupazione femminile è ancora superiore a quella maschile in paesi come la Grecia dove lo scarto tra i due tassi raggiunge i 6 punti, l’Italia ed il Portogallo (2 punti), la Francia, la Spagna o il Belgio (1 punto).
La prima  fase della crisi, che ha visto un forte abbassamento dell’occupazione maschile, è stata seguita da una seconda fase in cui sono i settori di occupazione a prevalenza femminile quelli più toccati: settore pubblico, settore dei servizi, salute, educazione…
In Francia, i tassi di disoccupazione maschile e femminile si sono riuniti nel 2009, ma dal 2010 il tasso della disoccupazione delle donne è ritornato superiore a quello maschile, sia secondo il BIT che l’Insee.

Evoluzione della disoccupazione o del numero dei richiedenti lavoro, i risultati non cambiano. Nel settembre 2011, il numero dei richiedenti lavoro in categoria A (senza lavoro) era in aumento su un anno di 0,9% per gli uomini contro  5,4% per le donne. Per le categorie A,B e C (cumulo senza impiego e attività ridotta) questo aumento su di un anno è del 6,4 % per le donne contro il 2,7 % degli uomini.

Come analizza Francoise Milewski (2), la disoccupazione maschile è aumentata più precocemente e più presto di quella femminile all’inizio della crisi, ma un riallineamento ha avuto luogo nel 2009-2010.
Ma non possiamo accontentarci di osservare l’evoluzione della disoccupazione in rapporto al lavoro senza considerare l’evoluzione del tempo parziale nella disoccupazione parziale. Le donne sono state meno toccate sia dalla perdita di lavoro che dall’aumento del sottolavoro a causa del lavoro a tempo parziale.
Il tasso  di occupazione femminile a tempo parziale èconcepito come una forma di impiego rispondente ai bisogni femminili.
Nel suo Rapporto 2010 sull’eguaglianza tra donne e uomini, la Commissione europea nota “…è importante prestare un’attenzione particolare all’evoluzione del tasso di disoccupazione durante la recessione, ma non bisogna perdere di vista le altre tendenze, meno visibili, come la sottorappresentazione delle donne tra…/…i disoccupati a tempo parziale ( cioè i lavoratori a tempo parziale che vorrebbero aumentare i tempi di lavoro), che non sono necessariamente registrati come disoccupati.”.
Ben detto, ma sino ad oggi una pietosa illusione.
Oltre all’aumento del lavoro a tempo parziale, la crisi ha prodotto in Europa la moltiplicazione dei contratti precari, con orari corti e salari molto bassi che riguardano in maggioranza le donne.
Rispetto all’indennizzazione della disoccupazione, la disoccupazione a tempo parziale di uomini e donne non è trattata alla stessa maniera. In Francia, nell’industria dell’automobile, gli uomini che subiscono una riduzione dell’attività hanno beneficiato di misure di indennizzazione, ma niente è stato previsto per attenuare gli effetti della riduzione della durata del tempo di lavoro delle lavoratrici a tempo parziale. Questo rinvia all’idea persistente secondo la quale la disoccupazione degli uomini è più grave di quella delle donne.
D’altronde, i dati dimostrano che in generale gli uomini sono indennizzati in proporzione maggiore rispetto alle donne. Alla fine del 2009, secondo Pôle Emploi, il 64,,1% degli uomini contro il 54,9% delle donne.

Salari:
La crisi economica e finanziaria tocca anche chi ha mantenuto il lavoro: nel suo Rapporto Mondiale sui Salari, l’OIT constata che a livello globale la crescita sui salari è stata divisa per due negli anni 2008 e 2009, cosa che ha fortemente eroso il potere d’acquisto dei lavoratori/trici e il loro benessere.
Le conseguenze sono evidentemente più gravi per le persone con salari bassi che possono facilmente cadere nella povertà… Ora, come ricorda il Rapporto, la presenza massiccia delle donne nei lavori a basso salario è una caratteristica universale dei mercati del lavoro.
Le donne costituiscono anche in assoluto la maggioranza dei lavoratori a basso salario nella maggior parte dei paesi, mentre il loro tasso di partecipazione al mercato del lavoro è comunemente più basso.

Sviluppo del lavoro precario e informale:
Il ricorso al lavoro precario (4) e informale è considerevolmente aumentato nella crisi praticamente in tutti i Paesi del mondo. Non si tratta semplicemente di una risposta a breve termine a problemi economici congiunturali, ma dell’accelerazione di una tendenza di fondo che fa del processo di “informalizzazione” del lavoro la caratteristica principale di tutti i mercati del lavoro.
Questa tendenza riguarda moltissimo le donne dappertutto nel mondo, ed in particolare le donne migranti.  Il BIT pone l’allerta sul fatto che esse sono la maggioranza nel settore informale, nel lavoro vulnerabile, il lavoro a tempo parziale, ed anche che sono in media meno pagate degli uomini per un lavoro di valore uguale, ed hanno un accesso limitato alle prestazioni sociali.
Malgrado l’insufficienza di dati di genere a livello mondiale sulle persone con lavoro precario, le  analisi condotte sul terreno nei diversi paesi o le testimonianze delle organizzazioni internazionali di lavoratori convergono nell’indicare una maggiore presenza di donne in questa forma di lavoro.
La CSI (5) ricorda che “strappa i loro diritti, perpetua le forme di ineguaglianza tra i sessi nella società, e limita le prospettive del progresso economico durevole.”.
La Federazione Internazionale delle Organizzazioni dei lavoratori metallurgici (FIOM) e l’Unione Internazionale dei Lavoratori dell’alimentazione, dell’agricoltura e dell’albergheria-ristorazione (UITA) constatano che nelle imprese dei loro settori, l’occupazione femminile è in generale più precaria, con una sicurezza minore, salari meno elevati, poche prestazioni ed una minore protezione sociale rispetto gli uomini. Il lavoro precario “diviene molto rapidamente l’ostacolo maggiore al rispetto dei diritti dei lavoratori, e particolarmente  delle donne.”.
Ostacolo ai diritti delle lavoratrici, il lavoro precario è anche identificato da uno studio (6) di Global Union Research Network (GURN) come “ un fattore chiave di scarto dei salari tra uomini e donne”: le risposte politiche per lottare contro la precarizzazione devono concentrarsi sul genere.

Il Parlamento europeo riprende questa analisi nelle due Risoluzioni votate a giugno e a ottobre 2010, e attira l’attenzione del Consiglio europeo, della Commissione e degli Stati membri sul fatto che questa situazione non ha ricevuto la dovuta attenzione: “ la crisi finanziaria ed economica in  Europa ha ripercussioni particolarmente negative sulle donne, più esposte alla precarizzazione del lavoro ed ai licenziamenti e meno coperte dal sistema di protezione sociale.”.
E’ un peccato che questa Risoluzione non sia stata seguita da effetti concreti, cosa che porta ad interrogarsi sul potere reale del Parlamento europeo.

Anche il Rapporto CES del giugno 2011 fa costatazioni allarmanti sull’evoluzione delle condizioni di lavoro delle donne in Europa, in termini di tempi di lavoro, salari e contratti.
Nota che i lavori femminili sono precari. Si assiste ad uno sviluppo del lavoro in nero. In Turchia, per esempio, il 58% delle donne ed il 38% degli uomini esercitano un lavoro senza essere dichiarati e dunque non beneficiano di alcuna copertura malattia, né assicurazione in caso di incidente. In generale, vi è dappertutto un aumento di carico di lavoro, di stress e di pressione, di maltrattamento morale  e psicologico. Il numero delle lavoratrici non dichiarate è sensibilmente aumentato, in particolare nel settore domestico.

La maggiore presenza delle donne nel lavoro precario è dovuta ad un insieme di ragioni, che non sono oggetto di questo articolo. Una di esse riguarda il doppio lavoro, in casa e fuori, l’aiuto alle persone dipendenti. Le donne sono condotte ad essere meno attente in termini di lavoro, ad accettare un lavoro a tempo parziale o parzialmente retribuito. Quando la riduzione della spesa pubblica, come vedremo dopo, si applica ai servizi della custodia dell’infanzia, servizi alle persone e servizi di salute, le riduzioni che pesano sulle donne non fanno che  amplificarsi.

Aumento della povertà:
L’aumento della povertà tocca egualmente le persone occupate e quelle disoccupate.
Secondo l’OIT, il numero dei lavoratori poveri (8) si è globalmente “accresciuto di 40 milioni in rapporto alle previsioni di prima della crisi, e nel 2009 la previsione per sesso della categoria “lavori vulnerabili” mostra che il 48,9% di uomini e 51,8% di donne hanno dovuto far fronte all’enorme sfida della precarietà.”.
Dappertutto, sono dunque le donne le più povere e le più duramente toccate dalla crisi.
“Benché la crisi economica sia scoppiata nei paesi sviluppati, sono le popolazioni povere e vulnerabili dei paesi in via di sviluppo, in particolare le donne, che soffrono dell’impatto e delle sue conseguenze (BIT 2011). “La crisi segue l’aumento dei prezzi del cibo che aveva già toccato le donne e i loro figli dei paesi poveri. Le donne e le ragazze sono rese molto vulnerabili per via del basso livello di istruzione.”.
Il Parlamento europeo constata che “ la povertà  femminile resta invisibile nelle statistiche e nei regimi di sicurezza sociale.”.
Dal Rapporto annuale 2010 della Commissione per la parità uomo-donna, la povertà è uno dei settori dove le differenze tra donne e uomini persistono, le donne sono più esposte ai suoi rischi e subiscono in maniera diversa l’esclusione sociale, in particolare le anziane il cui rischio di  povertà si è alzato nel 2008 al 22% contro il 16% degli uomini anziani, le madri single il cui rischio di povertà è del 35% ed altre categorie di donne come quelle che soffrono di un handicap oppure appartengono ad una minoranza etnica.

Di fronte alla crisi, politiche di austerità inefficaci e ingiuste:
I debiti pubblici degli stati sono esplosi per effetto dei piani di salvataggio massiccio  della finanza condotti dai governi, della recessione provocata dalla crisi e dalla riduzione delle entrate fiscali, in Francia come dappertutto in Europa (dovute specificatamente ai regali fiscali ai più ricchi ed alle imprese).
Sotto la pressione dei mercati finanziari che vogliono assicurarsi della capacità dei governi di rimborsare il debito, questi ultimi mettono in atto piani di austerità drastici. Applicati simultaneamente e massicciamente dall’insieme dei paesi europei, queste politiche non possono che determinare una recessione aggravata che otterrà di abbassare ancor di più le entrate fiscali.
I deficit pubblici aumenteranno, al contrario dell’obiettivo fissato. Oltre ad essere economicamente incoerenti, queste politiche sono inaccettabili dal punto di vista sociale. Accentueranno la gravità degli effetti della crisi sui popoli. Inoltre, ignorando le analisi degli effetti differenziati della crisi su donne e uomini, rischiano fortemente di aggravare le disuguaglianze.
Le principali leve azionate di differenti piani di austerità in Europa riguardano la diminuzione delle spese dello stato, della funzione pubblica e della protezione sociale, e l’aumento delle entrate attraverso il fisco. Qui di seguito, in sintesi, gli effetti in corso oppure attesi dei differenti tagli in Europa.

Tagli nella spesa pubblica:
I paesi con un forte livello di protezione sociale e di servizi pubblici hanno ammortizzato meglio lo choc della crisi (9), meglio resistito alla recessione ed all’aumento della povertà legati all’aumento della disoccupazione e della sottoccupazione, esattamente le basi dello stato sociale prese di mira dalle restrizioni budgetarie.
Il settore pubblico subisce riduzioni nel numero degli impiegati e/o delle remunerazioni. Le donne sono toccate a vario titolo, innanzitutto come principali impiegati del settore pubblico, poi come principali beneficiarie dei servizi pubblici.
Più di una quindicina di Paesi UE hanno messo in atto questo genere di misure. Nell’ottobre 2010, il Parlamento europeo ha attirato l’attenzione sul fatto che “ la disoccupazione femminile rischia di aumentare in maniera sproporzionata sotto i tagli budgettari annunciati nel settore pubblico, visto l’alto tasso di occupazione femminile nell’educazione, la sanità e i servizi sociali”.
La funzione pubblica è in effetti largamente femminile nella maggior parte dei Paesi.
Nel Regno Unito, le donne rappresentano il 65% degli impiegati del settore pubblico, e sopporteranno la parte più sostanziosa della soppressione dei 400.000 posti di lavori annunciata per i prossimi quattro anni. La British Fawcett Society (10) rileva che la differenza salariale tra i sessi è due volte più alta nel settore privato (20%) che in quello pubblico (11,6%), e le misure governative allargheranno questo fossato.
Una valutazione che è stata fatta al riguardo stima che sugli 8 milioni di Livres Sterling di economie realizzate attraverso misure sulla fiscalità e la protezione sociale, il 70% sarà prelevato dalle tasche delle donne. (11)
Oltre al congelamento o alla riduzione del numero di addetti nel settore pubblico,molti stati hanno applicatola riduzione dei salari per gli/ le impiegati/e: 5% in Spagna e in Danimarca, 10%  nella Repubblica Ceca, 12% in Lituania, dal 5 al 15% in Irlanda, 20% in Lettonia, addirittura del 25% in Romania, Portogallo e Grecia. In Francia i salari sono stati congelati.

Protezione sociale e dei servizi sociali, le donne le più colpite:
Dappertutto in Europa, i budget della protezione sociale subiscono riduzioni drastiche associando alle scelte di diminuzione dei fondi o della durata delle sovvenzioni per la disoccupazione, gli aiuti alle famiglie, la maternità, le prestazioni alle persone dipendenti o invalide.
Allo stesso tempo, le riduzioni colpiscono servizi essenziali come la custodia dei bambini ( asili nido, asili…), servizi sociali e servizi sanitari. In Francia, scompaiono le sale maternità, chiudono i centri IVG. Mentre cresce il numero delle persone dipendenti (per l’allungamento dell’età media), i budget che si sono destinati nel migliore dei casi stagnano oppure sono amputati.(…).
I tagli della spesa nella protezione sociale riguardano ancora più direttamente le donne capofamiglia.
Se la loro situazione è caratterizzata, come abbiamo visto, da un lavoro precario ed un basso salario, le riduzioni nei servizi pubblici o del montante delle prestazioni limitano fortemente la loro capacità di nutrire, educare e vegliare sul benessere dei propri figli e dei parenti, di occuparsi delle persone dipendenti o invalide di cui la collettività non si occupa.
L’assenza o la mancanza di politiche di cura porta all’aumento di impiego di donne migranti a domicilio, senza accesso ad una protezione sociale sufficiente, o costrette al lavoro nero.
Si possono facilmente anticipare gli effetti di queste politiche di austerità, giacchè sono simili a quelle imposte dal FMI nel 1980 ai paesi in via di sviluppo, per assicurarsi la loro capacità di rimborsare il debito. Le conseguenze sono state estremamente negative per le donne: obbligate ad assicurare servizi che non erano più presi in carico dallo stato e dalla collettività, hanno visto allungarsi fortemente il tempo di lavoro nella sfera privata, spesso a detrimento  del lavoro remunerato.
Gli effetti riguardano anche la sfera professionale. L’European Institute for Gender Equality constata che i tagli nei servizi di cura, prestazioni familiari, congedi di maternità, congedi parentali, rendono più difficile per le donne la famosa “conciliazione tra vita familiare e professionale” con un carico accresciuto di lavoro non remunerato che rafforza le disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro e nell’uso del tempo.

Attacchi alle pensioni:
Quasi tutti i Paesi europei hanno iniziato recentemente “riforme” nel loro sistema pensionistico.
La tendenza generale è alla privatizzazione delle pensioni, favorita dal ritiro dello stato sociale e a un rafforzamento del legame tra montante dei contributi versati e montante della pensione.
Questo rafforzamento discende dal ritiro dei meccanismi correttori (come i benefici  derivanti dalla presa in carico dei bambini, la soglia minima di pensione…) che avevano un funzione di redistribuzione al livello di pensioni, e che attenuavano gli effetti negativi sulle pensioni delle donne del loro investimento sui figli. Dappertutto, infatti, le donne hanno in media pensioni inferiori a quelle degli uomini, e spesso più deboli per via delle carriere interrotte dai periodi a tempo parziale, e dei salari bassi.
I meccanismi correttori, indispensabili, sono notoriamente insufficienti poiché le ineguaglianze medie tra uomini e donne si ritrovano amplificate quando si passa dai salari alle pensioni ( in Francia, la pensione media delle donne tutto compreso rappresenta solo il 62% di quella degli uomini…).
Adesso la tendenza è alla diminuzione di questi meccanismi.
Il rafforzamento del legame tra contributi versati e montante della pensione corrisponde ad una penalizzazione totale delle donne: il montante  della loro pensione non potrà che abbassarsi, con la conseguenza di esporle maggiormente alla povertà.
La Commissione europea dà atto che “l’impoverimento minacci le pensioni, e le donne anziane costituiscono uno dei gruppi più esposti al rischio di povertà.”. Questo rischio, elevato all’età di 65 anni, è significativamente più forte per le donne che per gli uomini (22% contro 16%).
La Commissione dimostra la sua capacità di dettare la dottrina nel medesimo tempo in cui ne deplora le conseguenze!

La tendenza di differenti riforme pensionistiche riguarda anche l’allineamento dell’età di uscita dal lavoro per le donne su quella degli uomini nei paesi in cui essa era differente. E’ il caso del Portogallo e dell’Italia, con un passaggio sino a 67 anni, della Gran Bretagna dove la differenza ( 60 donne, 65 uomini ) sarà soppressa nel 2020, della Grecia, Lituania, Polonia, Romania, ecc. Secondo i paesi, le pensioni sono state congelate o ridotte, il periodo contributivo allungato, con una difficoltà maggiore per le donne visto che molte non arrivano già oggi ad una carriera completa.
La riforma francese del 2010, segue e amplifica la regressione (12).Le misure di allungamento del periodo contributivo significano un abbassamento delle pensioni per tutti,  ma toccano in maniera sproporzionata le donne: una percentuale molto più forte di donne che di uomini prenderà la pensione ad un’età più avanzata ( con le note difficoltà di lavoro senior), e con montanti ancora più bassi poiché le donne sono più lontane degli uomini al periodo totale preteso.

Le difficoltà a venire sono motivo di preoccupazione. Secondo uno studio condotto dal Gruppo Bancario HSBC nel 2011 su un campione di 17.000 persone in 17 paesi, le donne europee sono più preoccupate degli uomini per il futuro delle loro pensioni, le francesi in particolare.
Tra le cinquantenni, il 58% associa la pensione alla  frase “difficoltà finanziarie” contro il 36% degli uomini. Un sondaggio dell’associazione Femme et Qualité a livello europeo indica che sono le donne le più preoccupate riguardo alla crisi economica con le sue conseguenze in termini di potere d’acquisto, di mancanza di strutture di asili e di cura, di assenza di aiuti sociali alle famiglie e di precarietà del lavoro, spesso non dichiarato. Preoccupazioni purtroppo ben fondate…

Infine, altro budget amputato dall’austerità, quello delle politiche di eguaglianza uomo-donna che sono state le prime a passare alla tagliola dei singoli stati, come nota il Parlamento europeo. In Francia, numerose associazioni di donne si sono viste abbassare la loro sovvenzione dal 10 al 20% su 3 anni, talvolta anche il 30%. Queste riduzioni hanno effetti più gravi quando riguardano associazioni che operano nell’accoglienza urgente oppure l’aiuto alimentare.

Conclusioni:
Questo approfondimento sull’impatto della crisi economica sulle donne, anche se parziale, porta ad una morale… e riaccende alcuni imperativi. Innanzitutto, l’evidenza che nessuna politica dovrebbe essere decisa a livello locale, nazionale o sovranazionale senza un’analisi preventiva dei suoi effetti di genere.
E’ un impegno preso dagli stati nella Quarta Conferenza Mondiale delle donne di Pechino 1995, che dovrebbe essere applicato in tutti i settori, economico, sociale, ecc, ma che resta abbondantemente lettera morta.
Alla stessa maniera, i programmi dei partiti politici, come le proposte dei movimenti sociali, devono sistematicamente integrare la dimensione di genere e l’obiettivo dell’uguaglianza uomo-donna nell’elaborazione e la costruzione di alternative. Non solo perché si tratta di un’esigenza di giustizia sociale, cosa in sé sufficiente, ma perché le politiche di uguaglianza costituiscono una parte della soluzione per uscire dalla crisi.
Risalire all’origine dei meccanismi che portano all’ineguaglianza di genere permette di prendere coscienza  sull’importanza di un aspetto fondamentale dell’attività umana che riguarda l’economia di cura ed il legame con il sociale: lavoro invisibile e gratuito, realizzato nella sfera privata, e lavoro sottostimato nella sfera pubblica.
Analizzare l’impatto dell’austerità sulle donne ed i gruppi più sfavoriti ricorda, crudelmente, l’importanza per il benessere collettivo dell’esistenza di una protezione sociale di alto livello  e di servizi pubblici di qualità. Dovrebbero essere sviluppati (specialmente gli asili, e i servizi alle persone non autosuffcienti) ed invece sono attaccati da tutte le parti. Questi settori, oltre al loro carattere essenziale, rappresentano un potenziale enorme per un crescita mirata ai bisogni sociali.

L’austerità non è ineluttabile ed altre soluzioni esistono (16). I vincoli posti ai governi – pressioni esercitate dai mercati finanziari, funzionamento dell’Unione europea, patto di stabilità -, per giustificare le loro politiche recessive sono certamente reali. Ma non sono leggi naturali, sono espressione di una camicia di forza costruita da governi successivi che sono essi stessi divenuti impresa finanziaria.
Ciò che è stato costruito può essere decostruito. I governi dei nostri Paesi sono eletti dal popolo, si è visto il loro panico all’annuncio che i Greci sarebbero andati a referendum. Se i mercati finanziari sono troppo ascoltati, è il popolo che non si fa sentire.

Nel contesto attuale, la mobilitazione della gente è indispensabile. La crisi deve essere l’occasione di cambiare radicalmente orientamento, di ridefinire il modello di società e di trasformare profondamente i modi di produrre e di consumare.
Si tratta di mettere in atto politiche per rispondere prioritariamente ai bisogni sociali e ambientali, e sottomettere l’economia a questo obiettivo.
Il bisogni del quotidiano, l’economia di cura, il legame sociale proprio perchè sempre più minacciati ritrovano un’importanza dimenticata. C’è una reale opportunità che queste preoccupazioni – che sono ancora oggi quelle delle donne ma che devono essere di tutti -, diventino una ragione di più per mobilitarsi. Pesare più dei mercati sulla base di esigenze insostituibili, creare un dinamica a livello dei popoli d’Europa. E’ la sfida di oggi.

Posted in anticapitalismo, crisi/debito, femminismi, pensatoio, precarietà, resistenze.


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