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Trilogia dalla città di N.

Una grande città del Sud.

Tre donne si raccontano… la loro vita, le speranze e la rabbia, la crisi che non c’è ma che c’è sempre stata, le diverse forme di resistenza, il futuro inimmaginabile.

Una terra amata che si fa quotidianamente odiare.

 

TRILOGIA DALLA CITTÀ DI N.

Graziana.

A me di quello che succede fuori dalla porta di casa non me ne frega più niente. Prima una casa non la tenevo e ‘na porta era un lusso… in cinque in una stanza e un tramezzo con una tenda che divideva i letti… mi sembrava che con mio marito per la vergogna che ci sentivano non si faceva mai all’amore e invece sempre incinta mi ritrovavo!

Poi le case ce le siamo prese e ora c’ho una porta da chiudere. Entrano i topi, entra l’acqua, entra il fetore della spazzatura, ma quello che posso scegliere lo tengo fuori… la crisi? E che vuol dire? Qua stiamo in crisi da sempre! Io campo facendo le scale al nero, non salto un giorno: malata o stanca non mi posso fermare perché ce ne stanno mille che non vedono l’ora di fregarsi ‘sto posto e c’hanno pure ragione, questa è una guerra, solo che invece di farla a loro, ce la facciamo tra di noi.

A trent’anni e con quattro figli non ho scelta ma se mi tocchi la pelle la senti che brucia, perché c’ho una rabbia in corpo che mi si divora… pure mio figlio più grande, che va a giornata nei cantieri, sempre incazzato, coi marocchini, cogli albanesi… diceva mà, quelli lavorano per niente, quelli ci fottono e a noi non ci pigliano più… io non ho studiato ma se ci ammazziamo di fatica e ci scanniamo tra disgraziati…no, così non c’è futuro.

Poi mia figlia mi ha detto che si vogliono sposare, capace che fa pure un figlio, le ho detto sei matta, che gli date a mangiare?

Mi ha risposto che una cosa bella nella vita la vuole pure lei, pure senza soldi un figlio è una speranza e a me mi è venuta in mente mia nonna, che diceva che durante la guerra, in mezzo alle macerie e alla fame, facevano figli per dopo, perché dopo era meglio.

Elena.

Ho insegnato fino alla pensione in una scuola media, in una di quelle zone che sta sempre al telegiornale, coi ragazzini che li devi andare a prendere a uno a uno perché è meglio un banco che stare in mezzo a una strada.. allora la pensavo così e ci credo ancora… avevo 20 anni o giù di lì, come cantava Guccini, quando ho avuto il primo incarico, e la rivoluzione si poteva fare anche insegnando a leggere a e scrivere…

Ho cominciato così, una vita fa.

Eravamo un bel gruppo, giovani, motivati, pieni di passione e di voglia di cambiare quella fetta di mondo in cui ci era toccato vivere e abbiamo combattuto per ogni ora in classe, per ogni parola scritta, per ogni riga di poesia letta in quelle scuole senza niente che amavamo così tanto.

Come spiegare… ecco: un giorno mi fermò per strada un ragazzo, lo conoscevo di vista, era il fratello di una mia allieva, una ragazzina sveglia che voleva sempre leggere, non le bastavano i compiti, voleva tenersi occupata tutto il pomeriggio e leggeva, leggeva, le tenevo da parte il giornale, anche se molte cose non le capiva, ovviamente… comunque mi invitò a casa, volevano conoscere la professoressa, io però conoscevo loro, sapevo che famiglia era… andai e trovai tutti gli uomini di casa schierati ad accogliermi, dal nonno ai nipoti, gentilissimi, si sforzarono per tutto il pomeriggio di parlare italiano, ma non ce ne era bisogno, il messaggio era comunque chiaro: fatti i fatti tuoi. Studiare voleva dire ribellarsi.

Ecco perché da anni cercano di distruggere, annientare, desertificare la scuola: sì, è vero, abbiamo educato alla ribellione!

Ho insegnato a pensare, a criticare, a capire, a incuriosirsi e ad arrabbiarsi o per lo meno mi piace credere di averci provato… in contesti sociali più o meno difficili, mentre i ministri andavano e venivano e le riforme, pur necessarie, ne sono convinta, invece di costruire demolivano… io ho insegnato a resistere. In questa città non è cosa da poco.

Lori.

Io me ne sono andata. Alla prima occasione sono salita al Nord e per alcuni anni ho davvero pensato di aver fatto la scelta giusta… ordine, sicurezza, pulizia, un lavoro certo, servizi… nella provincia che lavora, quella che tira la carretta Italia, come dicono.

Anni vissuti sotto anestesia, un po’ di volontariato, qualche riunione di un partito che oggi non esiste neanche più… fino a quando il mio lavoro non mi ha portato, per così dire, dentro una fabbrica e finalmente a scoprire qual è il prezzo che a volte si paga, che paghiamo per il benessere: lettere di dimissioni in bianco già firmate, maternità programmate, colloqui di assunzione che parevano visite mediche di fertilità… e potrei continuare.

E’ passato tantissimo tempo, e io sono ormai tornata definitivamente nella mia città: c’è tanto di cui essere fiere, come donne… in prima fila in tante lotte per la nostra terra, per la salute, per la legalità, per la dignità della vita nostra e dei nostri figli e io non credo di aver abbandonato le compagne di quelle fabbriche di nebbia, perché so che ogni volta che scendiamo in strada a manifestare siamo tutte insieme.

Ma forse questa è solo la mia storia personale… si può ancora dire che è comunque una storia politica?!

Posted in autodeterminazione, pensatoio, personale/politico, precarietà, resistenze, storie di donne.


One Response

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  1. elisa sgobba says

    questa è la realtà, non solo di N., ormai. l’unica critica che mi sento di fare è che tranne nell’ultima sento un pò di rassegnazione nelle altre testimonianze. è un’altra sconfitta rinunciare alla lotta.