Queste sono tre delle donne morte ammazzate nella fabbrica di Barletta. Sepolte vive in un posto dove venivano pagate 4 euro l’ora in nero. Con la maglia turchese Antonella Zaza, con gli occhiali Giovanna Sardaro e in basso Matilde Doronzo. Manca il volto di Tina Ceci, 37 anni e di Maria Cinquepalmi, 14 anni.
Fossero stati militari caduti in guerra avremmo i loro primi piani e vedremmo i tricolore sventolare dalle pagine di tutti i quotidiani, invece erano “solo” delle operaie precarie costrette a lavorare in nero per due soldi per campare.
Ripetiamo: Tina Ceci, 37 anni. Matilde Doronzo, 32. Giovanna Sardaro, 30 anni. Antonella Zaza, 36. E Maria Cinquepalmi, 14 anni. Queste sono le donne morte nella strage annunciata. Le adulte lavoravano in nero per 4 euro l’ora.
Noi per esempio stragi del genere le inseriremmo nella lista dei femminicidi perché sono crimini nei confronti di lavoratrici deboli e ricattabili che in quanto tali accettano di stare nascoste negli scantinati perché non si sappia quante sono e cosa stanno facendo.
Ce l’avevano un contratto regolare? Quelle che sono morte ammazzate, dico. Ce l’avevano o no? I parenti ci dicono di no e ci dicono che lavoravano in nero per 4 schifosissime euro l’ora. Quella ditta ce l’aveva il permesso per stare in quella stamberga? Non sarebbe obbligatorio per i luoghi di lavoro averci una serie di norme per la sicurezza da rispettare? E se ci fosse stato un incendio? Come potevano uscire quelle povere anime da là sotto? Quanti anni avevano? Erano in quell’età che ti costringe a stare fuori dal mercato del lavoro, destinate nei sotterranei per arrivare a morte certa? Lo capite o no che tra quelle donne poteva starci chiunque tra noi? Chiunque tra le tante precarie che combattono ogni giorno in Italia?
Intrappolate come topi e non servono le parole di commiato e tutta l’indignazione che si può spendere adesso perché in Italia c’è un sommerso di lavoro infame che recupera persone ricattabili e le tratta da bestie.
A prescindere da tutto, dall’illogica capacità di certi enti di ignorare le segnalazioni per non farsi carico di cose che costano responsabilità, come già fu per la casa dello studente dell’Aquila o per la scuola elementare delle marche, com’è per mille luoghi strutturalmente fragili che pure ci abitiamo e lavoriamo, a parte tutto questo, dico, c’è il fatto che a morire sono sempre gli ultimi e le ultime.
Ne sono morte cinque, infine, e noi speravamo di no, invece, e ci dispiace che sui giornali si taccia sulle dipendenti e si sottolinei in mille modi che a morire c’era pure la figlia quattordicenne dei titolari che era passata a trovarli, ché forse la pietà può fermare i pensieri, le critiche e le riflessioni? Ci spiace, moltissimo, e comprendiamo e rispettiamo il dolore, ci spiace davvero, come ci è dispiaciuto per il figlio del sindaco del paese in cui crollò la scuola elementare ma averci un figlio tra le vittime non ci esonera dalle responsabilità, anzi le amplifica e ce le ributta sotto il naso ché non ci sono giustificazioni per cose del genere. E quella responsabilità va sicuramente ripartita e bisogna parlarne se non si vuole che accada ancora.
Ci sono quelli che per spuntarla con le tasse e tutto il resto e per guadagnare sul lavoro altrui aprono una ditta in un sotterraneo e poi prendono personale in nero e poi ci sono quelli che saltano controlli e quelli che sfruttano l’indotto per subappaltare lavori e mi ricordo dei racconti di Saviano in Gomorra mentre diceva di quelle persone che stavano nascoste a cucire gli abiti della grandi marche italiane per pochi euri l’uno. Abiti che poi li rivedevi nelle sfilate per gli oscar indossati dalle grandi attrici.
Non servono le parole di commiato, serve strappare le donne dalle condizioni di ricattabilità. Le donne e gli immigrati che sono l’altra grandissima categoria debole. Questi sono crimini che vanno addebitati a chi ha organizzato il lavoro in quel modo e a chi continua a pensare una organizzazione sociale che rimanda le donne negli scantinati e in luoghi pericolosi e bui dai quali è impossibile uscire in caso di “tragedia annunciata” come questa.
Queste giornate sono da ricordare, come il primo maggio o l’otto marzo, come tutte quelle giornate di resistenza attiva in cui ci sono persone, donne, cadute sul campo di battaglia mentre tentavano di racimolare qualcosa per portare il pane in casa.
La precarietà uccide. L’irresponsabilità idem. Ed è ora che tutti si assumano le proprie responsabilità. Vogliamo i nomi delle donne che sono morte ammazzate. Vogliamo le loro facce, le loro storie, vogliamo ricordarle e sapere chi erano e perché erano costrette a stare in quel posto terribile. Vogliamo toccarlo con mano il dolore e lasciarci ferire perché siamo già ferite e non ne possiamo più di vedere le donne morire una dopo l’altra, per un motivo o per un altro.
Buonanotte sorelle. Fate un buon sonno e riposate finalmente. Assieme ai vostri cari ci siamo anche noi a piangervi e ci rincontreremo un giorno, nel paradiso delle precarie resistenti che hanno lottato fino all’ultimo e che sono morte lottando per la propria sopravvivenza. Noi verremo a manifestare e ad abbattere muri. Senz’altro porteremo uno striscione con i vostri nomi e vi abbracciamo, una ad una. Tutte.