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Saffo, o i Frammenti di un discorso amoroso

La necessità di questo libro sta nella seguente considerazione: il discorso amoroso è oggi di un’estrema solitudine. Questo discorso è forse parlato da migliaia di individui (chi può dirlo?), ma non è sostenuto da nessuno; esso si trova ad essere completamente abbandonato dai discorsi vicini: oppure è da questi ignorato, svalutato, schernito, tagliato fuori non solo dal potere, ma anche dai suoi meccanismi (scienze, arti, sapere). Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell’inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un’affermazione. Quest’affermazione è in definitiva l’argomento del libro che qui ha inizio. 

(Roland Barthes, Incipit dei Frammenti di un discorso amoroso)

Le notizie sulla vita di Saffo sono frammentarie come le poesie che il tempo ha conservato fino a noi. Vissuta a cavallo tra il VII e il VI secolo, nacque a Lesvos, una tra le più estese delle isole greche, aspra e rocciosa, affacciata sulla costa dell’Asia Minore. Contemporanea e compatriota di un altro grande lirico, Alceo, che la definì- divina, coronata di viole, sorriso di miele- Saffo apparteneva ad una famiglia aristocratica, e sebbene nella sua opera si trovino scarsissimi riferimenti alla situazione politica della sua terra, appare ormai certo che dovette trascorrere un periodo d’esilio in Sicilia, a causa delle aspre contese che dilaniarono l’isola. Sposata ad un uomo ricchissimo, il mercante Cercila, ebbe una figlia, Cleide.

La tradizione ha per secoli rimosso moralisticamente la sua omosessualità, attribuendole una morte falsa: in età ormai matura, disperata per l’amore non corrisposto nei confronti del più giovane Faone, la poetessa si sarebbe suicidata gettandosi da una rupe nel mare. Ma Faone è una figura mitologica del corteggio di Afrodite, e i suoi versi, che meglio di ogni suo predecessore e più di tutti i lirici greci, coltivano le mille tonalità del desiderio amoroso, sono senza dubbio autobiografici e dedicati alle donne.

Saffo rivela, nei suoi versi, una nuova dimensione psicologica dell’amore, che schiude ad un altro sentimento del tempo, completamente diverso da quello che intride la grande poesia epica e didascalica (primi fra tutti i poemi omerici); rappresenta anzi il rovesciamento dolce ma essenziale dei valori dell’epos omerico. In un famoso carme, pervenutoci in parte, afferma per prima, nella tradizione letteraria occidentale, come poeta e come donna, la superiorità del sentimento individuale su ogni altro valore tradizionale, rigettando ogni priorità oggettiva, e rivendicando la soggettività assoluta ed irriducibile del fenomeno amoroso.

Alcuni dicono che sulla terra nera la cosa più bella sia un esercito di cavalieri

altri di fanti, altri ancora di navi,

io invece dico che è ciò che ciascuno ama….

e mi sovviene Anattoria, che è lontana

della quale vorrei contemplare il passo seducente ed il luminoso scintillio del volto

ben più che i carri dei Lidi e i fanti che combattono in armi.

Lo stile è asciutto, sintetico, la parola di Saffo, scritta in dialetto eolico, saetta dritta al cuore delle cose, in una corrispondenza tra interiorità e ambiente naturale tipicamente greca. La sintesi essenziale e perfetta, che raccoglie in pochi versi una straordinaria densità emotiva, è resa possibile anche dal greco antico, lingua agglutinante per eccellenza, che si offre a chi la manipoli come il più creativo degli strumenti linguistici. Sullo sfondo, la dimensione tipicamente elladica del poetare, come atto eminente di creazione e ricreazione della realtà, eco di tempi più arcaici, nei quali la parola magica trasformava il reale: la radice etimologica della parola poesia è infatti nel verbo POIEIN come fare, manipolare materialmente la realtà, e Saffo ne declina a pieno la potenzialità; nei suoi carmi la parola poetica è incantesimo che vincola l’amore, suscita il desiderio, dischiude nel presente anche la dimensione del passato- con la riattualizzazione dell’amore perduto, che rivive nei versi, e quella del futuro, come attesa desiderante.

Forse a Sardi, spesso con la memoria qui ritorna

nel tempo che fu nostro: quando

per lei eri come Afrodite, e molto godeva

del tuo canto.

Ora fra le donne di Lidia spicca

come, calato il sole,

la luna dai raggi rosa

vince tutti gli astri, e la sua luce modula

sulle acque del mare

e i campi presi d’erba

e la rugiada illumina la rosa,

si posa sul gracile timo e il trifoglio

simile a un fiore.

Solitaria, vagando, esita

a volte se pensa ad Attide: di desiderio

l’anima trasale,

il cuore è aspro.

E d’improvviso: ” Venite! ” urla;

e questa voce non ignota

a noi per sillabe risuona

scorrendo sopra il mare

E certamente gli amori lesbici di Saffo e delle donne greche in genere non potevano essere facili, e prima o poi erano destinati a farsi lontani, struggenti ricordi a causa degli obblighi matrimoniali.

Per comprendere a pieno la straordinaria grandezza della poetessa di Mitilene, è quindi necessario

fare una piccola digressione sia sulla condizione della donna nell’antica Grecia sia sulla forma e sulle occasioni della Lirica greca.

***

Fin dalla sua origine, la polis greca è un progetto politico che esclude le donne da qualsiasi forma di partecipazione. A partire dal VII secolo, quando comincia il suo processo di formazione, i legislatori normano minuziosamente il comportamento sessuale degli uomini e delle donne che abitano la comunità e malgrado diventasse sempre più importante escludere le forme di vendetta privata e attribuire ogni potere di giudizio e facoltà di giustizia ai tribunali della polis, legittimano e rafforzano di fatto comportamenti fuori dalla legge solo quando si tratta di donne. Non era punito colui che avesse ucciso l’uomo trovato in flagrante con la moglie, la concubina, la madre, la figlia o la sorella, egli aveva anzi compiuto un omicidio considerato dikaios, giusto. Proprietà cosale del maschio la donna, come lo schiavo, era di fatto esclusa dalla polis- la città politica- benchè abitante dell’astu (la città intesa in senso fisico) con la quale veniva identificata ( le donne erano dette aste).

La legge della polis prevedeva pochi rigidi ruoli per le donne: la moglie, confinata fisicamente entro le mura domestiche, anzi, entro lo spazio ancor più angusto del gineceo, la concubina dell’uomo sposato, l’etera ( l’accompagnatrice colta dell’uomo nei suoi momenti di socialità preclusa alle donne sposate), la porné, ossia la prostituta vera e propria.

A scandire le tappe di una reclusione progressiva e forzata vi era un intero cerimoniale, ricalcato su quello caratteristico dell’iniziazione dei maschi ma con ben altro significato.

Il coro delle donne della Lisistrata di Aristofane ci ha tramandato precisamente le tappe del bando femminile: a 7 anni le bambine erano arrefore, le tessitrici del peplo sacro di Pallade Atena, a 10 anni la fanciulla diventava aletris, macinava il grano per la focaccia sacra della dea, in seguito le ragazze diventavano arktoi “orse”, sacerdotesse sacre devote ad un rituale espiatorio, infine come kanefore, alle feste Panatenaiche recavano i canestri con le offerte sacre. Al termine di questo percorso, durante il quale, simbolicamente e materialmente, venivano istruite alla docilità e alle arti domestiche, le ragazze erano pronte per la definitiva segregazione matrimoniale.

Anche nelle terre doriche, ed in particolare a Sparta, dove erano leggermente più libere che ad Atene, le donne erano comunque vincolate alla funzione considerata socialmente prevalente, quella riproduttiva. Mentre i maschi, gli Spartiati, per classi d’età ed iniziazioni successive erano introdotti in gruppi di pari ed infine diventavano omoioi, cittadini dominanti su Iloti e Perieci, le donne conoscevano solo lo status di parthenoi (vergini), sotto la protezione di Artemide, e quella di donne sposate.

***

La polis greca rappresenta dunque il culmine di una secolare transizione dal matriarcato dei primi villaggi al patriarcato, che troverà compiuta teorizzazione al tramonto della polis, in Aristotele, nella distinzione tra l’uomo-forma, spirito e attività e la donna- mera materia, passivo ricettacolo.

Una trasformazione sociale intimamente connessa, in Grecia, all’affermazione irresistibile di un’economia fondata sull’agricoltura intensiva, e dunque sulla proprietà della terra, da difendere o conquistare attraverso la guerra ed i suoi capi militari.

A poco a poco non solo si istituzionalizza la funzione riproduttiva delle donne, ma, congiuntamente, si svalorizza e demonizza qualsiasi rifiuto, da parte delle stesse, della relazione col maschile. Si passa dunque dai primi miti della Potnia Mediterranea, La Grande Madre cui si accompagna un paredro, un compagno, passivo, ancora diffusi nel mondo minoico, a miti che sanciscono definitivamente il nuovo ordine patriarcale: in essi, le donne che rifiutano i ruoli prestabiliti sono sanzionate, simbolicamente, dal cattivo odore emanato. La donna che non vuole sposarsi puzza oppure, come mel mito delle figlie di Proitos, si ammala e perde tutti i capelli.

All’interno di una società che escogita tali dispositivi di segregazione e marginalizzazione del femminile, le donne conoscono pochi momenti di socialità, all’interno dei quali mettere in comune competenze, saperi, desideri. Il più importante è senz’altro rappresentato dal tiaso. I tiasi, il cui equivalente maschile erano le eterie, erano associazioni di donne accomunate dall’ appartenenza alla stessa classe sociale, il cui fine principale era l’educazione delle giovani ad opera delle più anziane, attraverso un’ampia sfera di esperienze intellettuali, fisiche ed emotive. Eteria e tiaso rappresentano il luogo privilegiato della fioritura della lirica greca, ma mentre l’occasione per declamare la poesia era per i maschi il simposio, precluso alle donne, i carmi composti dalle donne nel tiaso erano destinati a restare entro la cerchia delle consociate.

Saffo fu la maestra del più importante tiaso della sua isola, Lesvos, nella quale sorgevano anche scuole rivali.

Fu forse la più grande dei poeti greci della lirica monodica, un genere specifico cantato da un solo esecutore, accompagnato dal barbiton ( una sorta di lira). L’accompagnamento con lo strumento l’accomuna al giambo e all’elegia, ma rispetto ad essi la lirica monodica presenta una dimensione musicale più pronunciata, in cui l’esecuzione vocale assume la forma della melodia e non più di semplice recitativo.

Scritte per essere cantate, intrise dell’amore profondamente greco per la bellezza e per la vita intesa come valore assoluto, senz’altro che la trascenda, le liriche saffiche si distinguono in due gruppi principali, che ben rappresentano la tensione, nella biografia della poetessa, tra l’esistenza convenzionale, da donna sposata e madre, e quella più intima e autentica: da un lato gli epitalami, canti rituali destinati alle nozze delle fanciulle della sua scuola, dall’altro il corpus più consistente e complesso della poesia autobiografica, densa di passionalità, capace di svelare i più piccoli moti del cuore e del suo corpo desiderante.

Per secoli la tradizione ha cercato di rimuovere l’amore omosessuale di Saffo, o in forma biecamente moralistica, distorcendone la biografia, come abbiamo visto all’inizio, o in forma più sottile e giustificata storiograficamente. Poichè infatti nella cultura greca l’omosessualità maschile aveva spesso una funzione emintemente pedagogica e psicagogica- e cioè era accettato ed incoraggiato che il maestro più anziano intrattenesse anche rapporti fisici con il giovane discente- parte della critica, fin dall’antichità, ha cercato di costruire l’omosessualità femminile sul modello di quella maschile. Già Plutarco infatti, a proposito di Saffo, enfatizzava la funzione pedagogica dei rapporti tra donne, svalorizzandone dunque la componente individuale, irreducibile a comportamento sociale.

Vi è ancora infine una lunga tradizione di interpreti, che dura fino all’800, che legge le poesie di Saffo con intento nosologico e finalità patologizzante. Per questa tradizione, versi che se scritti da mano maschile rappresenterebbero il discorso amoroso più compiuto e commovente, diventano l’espressione di una malattia.

L’Occidente dovrà attendere Baudelaire e una grande poetessa inglese ma francese d’adozione, Renée Vivien, anch’essa lesbica, per cominciare a leggere con altre lenti le liriche di Saffo.

Liberati dalle incrostazioni filologiche, dalle interpretazioni convenzionali e sanzionatorie, i frammenti che ci sono giunti rappresentano bene l’intento che, a distanza di secoli, si proporrà Roland Barthes nel suo Frammenti di un discorso amoroso: abbandonato, ignorato, schernito e distorto dal potere e dai suoi meccanismi, parla invece nei carmi con un linguaggio corporeo, trova complicità e corrispondenza nella natura tutta. L’Amore, per Saffo, è glukupikron amekanon orpeton, dolceamara invicibile fiera.

Nessun amante, quando legge Saffo, è solo.

A me pare uguale agli dei

chi a te vicino così dolce

suono ascolta, se tu parli

e ridi amorosamente.

Subito a me il cuore

si agita nel petto

solo che appena ti veda, e la voce

si perde sulla lingua inerte.

Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,

e ho buio negli occhi e il rombo

del sangue alle orecchie.

E tutta sudata e tremante

come erba patita scoloro:

e la morte non pare lontana,

a me rapita di mente

***

Tramontata è la Luna

e le Pleiadi a mezzo della notte;

anche la giovinezza già si dilegua,

e nel mio letto giaccio sola

***

Scuote l’anima mia Eros,

come vento sul monte

che irrompe tra le querce

e scioglie le membra, e le agita,

dolceamara invicibile fiera.

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