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Ciao Nori

“Eravamo giovani, ci sentivamo belle, allegre. E’ giusto che venga fuori anche questa nostra normalità. Non eravamo incoscienti, sapevamo di correre dei rischi. Ma volevamo un’Italia diversa, libera, e non c’era altra scelta oltre a quella di resistere e combattere”. 

Nori Brambilla Pesce è morta ieri. Combattente partigiana, medaglia d’argento alla Resistenza, lottò per la libertà con il marito Giovanni Pesce.

L’anno scorso, la compagna Sandra (questo il suo nome di battaglia) aveva pubblicato le sue memorie, “Il pane bianco”. A proposito del libro, disse: “Questo libro  l’ho scritto solo perché me lo hanno chiesto i giovani”.

Dall’Enciclopedia delle donne:

Onorina Brambilla Pesce, Milano 1923 – Milano 2011

«Avevamo tutti un nome di battaglia, io mi ero scelto Sandra; ho fatto una ricerca: mentre gli uomini partigiani si sceglievano nomi fantasiosi, Tarzan, Saetta, Lupo, la maggior parte delle ragazze avevano nomi normali…Elsa… ecco, il massimo era Katia!»[1]
Di famiglia antifascista e comunista, abita con i genitori e la sorella Wanda in una casa di ringhiera ai Tre Furcei, quartiere operaio di Lambrate a Milano. Il padre Romeo, “specializzato” alla Bianchi, fabbrica di biciclette, rifiuta di prendere la tessera del partito fascista; ne conseguono anni di disoccupazione e miseria.

Con la guerra di aggressione all’Abissinia, nel 1935, viene però a mancare la mano d’opera ed è assunto alla Breda. La madre Maria (il suo nome di battaglia negli anni della Resistenza sarà Tatiana) insegna alle figlie Onorina e alla più piccola Wanda a dubitare della propaganda del regime; è operaia, prima alla Agretta, nota per le bibite, e poi alla Safar che produce radio: «Aveva una voce così bella che veniva chiamata a cantare per testare certi microfoni». Desidera per la figlia l’istruzione che la allontani dal duro lavoro della fabbrica.
Onorina frequenta per tre anni una scuola professionale; le piacerebbe continuare a studiare ma i genitori possono solo iscriverla a un corso trimestrale di stenodattilografia dopo il quale, a 14 anni, deve cercare un lavoro.
Viene assunta dalla Paronitti come impiegata: «Non arrivavo neanche alla scrivania e i colleghi mi chiamavano Topolino, dovevano mettermi dei cuscini sulla sedia per alzarmi».
Dal 10 giugno 1940 l’Italia è in guerra.
Onorina rimane in quella ditta 4 anni, ma viene licenziata nel 1941 a causa di un diverbio con il padrone. Trova presto un nuovo impiego in una ditta che produce binari, è incaricata di compilare un inventario, frequenta i capannoni annotando tutto, conosce gli operai, impara a individuare chi è antifascista e chi no. Comincia a studiare l’inglese al Circolo Filologico di Via Clerici: in quella biblioteca circolano ancora, incredibilmente, molti libri vietati dal regime, preziosi per la sua formazione.
La fame si fa sempre più sentire, la gente non ne può più, la guerra toglie il velo a tutte le menzogne della propaganda di regime. La caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 coglie la gente di sorpresa, festa e disorientamento sono tutt’uno, i carri armati vengono usati per disperdere la folla. Nell’Agosto 1943 Milano viene bombardata.
La città è in fiamme, colpiti il Duomo, Palazzo Reale, il Castello Sforzesco, la Scala, Sant’Ambrogio, la Pinacoteca di Brera; a Santa Maria delle Grazie il Cenacolo di Leonardo è salvo per puro caso.
Nel rifugio affollato, una sera Onorina non riesce a trattenere la gran rabbia e, salita su un tavolo, senza curarsi dei molti fascisti presenti, grida «È ora di finirla con questa guerra!» È contenta, ha tenuto il suo primo comizio antifascista.
«Secondo me sono state le donne a dare inizio alla Resistenza… la loro partecipazione fu dovuta a motivazioni personali; a differenza di molti uomini che scelsero di andare in montagna per sottrarsi all’arruolamento nell’esercito di Salò, nessun obbligo le costringeva ad una scelta di parte; fu anche l’occasione per affermare quei diritti che non avevamo mai avuto, mai come in quei mesi ci siamo sentite pari all’uomo…»
Dopo l’Armistizio dell’8 Settembre 1943 (in effetti una resa senza condizioni), i tedeschi occupano Milano, è finita una guerra ma ne sta iniziando un’altra. I soldati dell’esercito Italiano abbandonano le divise, molti diventano partigiani; i Gruppi di Difesa della Donna (che arrivano a mobilitare, fino all’aprile ’45, almeno 24.ooo donne) si occupano di procurare loro denaro, cibo, vestiti; il compito di Onorina è distribuire la stampa clandestina. Desidera raggiungere in montagna una Brigata Garibaldi, ma la sua amica Vera (nome di battaglia di Francesca Ciceri, comunista) le presenta Visone (Giovanni Pesce) che sarà il suo Comandante e futuro marito. Lui la convince a combattere nella propria città, e Onorina a marzo 1944 lascia il lavoro. “Sandra” diventa Ufficiale di collegamento del III° ー Gap “Egisto Rubini”, equivalente al grado di sottotenente dell’Esercito Italiano, decisamente più che una staffetta. Con la sua bicicletta Bianchi color azzurro cielo [2] trasporta armi, munizioni ed esplosivo, passa spesso, con il cuore in gola, in mezzo ai rastrellamenti nazifascisti. Sono le staffette a portare le armi e a prenderle in consegna dopo un’azione per evitare che i gappisti vengano sorpresi armati e fucilati sul posto.
«C’erano le rappresaglie ma, cosa avremmo dovuto fare? Smettere la lotta? In ogni caso i nazifascisti non avrebbero cessato di fare quello che facevano. Non ho mai provato pena per chi colpivamo. La guerra non l’avevamo voluta noi. Loro ogni giorno fucilavano, deportavano, torturavano. Si dovevano vincere due cose, la pietà e la paura.»
Il 24 giugno 1944 nella “battaglia dei binari” alla stazione di Greco, un bersaglio di straordinaria importanza, Sandra è il collegamento tra i ferrovieri e i gappisti e con la compagna Narva porta i 14 ordigni che, piazzati nei forni di combustione delle locomotive scoppiano simultaneamente; l’azione dei Gap viene citata da Radio Londra.
Il 12 Settembre 1944, a 21 anni, tradita da un partigiano passato al nemico (“Arconati”, Giovanni Jannelli) viene catturata dalle SS nei pressi del Cinema Argentina, nel cuore di Milano. Inizia la prigionia, la sofferenza, il distacco dalla famiglia, la tortura e la violenza fisica subita dalle SS nella Casa del Balilla di Monza, trasformata in carcere.
In attesa dell’interrogatorio cerca di farsi coraggio. Ai gappisti arrestati il Comando chiede di resistere 24 o 48 ore per permettere ai compagni di mettersi in salvo. L’interrogatorio è terribile, vogliono che lei consegni Visone, ore e ore di percosse, torture. Non parla, nessuno dei suoi compagni è compromesso.
Rimane in isolamento totale nel carcere di Monza due mesi, giornate lunghe e vuote, non può comunicare con l’esterno o ricevere notizie. È trasferita a San Vittore per soli due giorni e, l’11 novembre 1944, caricata, con altri prigionieri, su un pullman senza conoscere la destinazione.
Viene imprigionata a Bolzano in un campo di transito. Ancora oggi non si spiega perché le 500 prigioniere politiche che lì si trovavano non furono mai deportate in Germania, diversamente dalle altre 2700 donne che dall’Italia raggiungeranno i campi di concentramento. Mantiene contatti epistolari con la madre, la rassicura sul suo stato fisico e psicologico, riesce persino a scherzare: «se non fosse perché abbiamo sempre fame sembrerebbe una villeggiatura…» Lavora dapprima alla sartoria del campo, in un ambiente stretto e soffocante ma poi riesce a farsi assegnare ai lavori esterni. I tedeschi, prima di fuggire, le rilasciano persino un documento che attesta la prigionia e grazie al quale riuscirà in seguito a dimostrare la sua deportazione.
Milano era stata liberata dei Partigiani e dall’insurrezione popolare il 25 aprile. Onorina decide di non attendere l’arrivo degli americani; con alcuni compagni, sotto la neve, si inerpica sul passo della Mendola, attraversa la Val di Non e il Tonale; si fermano la notte presso i contadini ai quali chiedono cibo e riparo, sono d’aiuto i posti di ristoro dei partigiani delle Fiamme Verdi. Finalmente un pullman fornito dai comuni della zona fino a Ponte di Legno, li porta da lì a Lovere; poi in treno fino a Milano, Stazione Centrale: era il 7 maggio 1945. Con un’assurda “normalità” arriva a Lambrate, a casa, con il tram n. 7. Dalla finestra, vicina a Wanda, guarda emozionata la manifestazione dei Partigiani, rivede Visone, corre in strada, si abbracciano. Nori (come la chiamerà il marito) e Giovanni Pesce, finalmente liberi, si sposano il 14 luglio 1945, non possiedono niente, solo gioia per la ritrovata libertà e speranza per una nuova vita.
Si trasferiscono per un breve periodo a Roma, dopo l’attentato del 1948 a Togliatti, Giovanni guida la Commissione di Vigilanza, a protezione dei maggiori dirigenti del Pci. Nori trova impiego nella segreteria di Pietro Secchia, commissario politico delle Divisioni Garibaldi.
Tornata a Milano lavora alla Federazione del Pci e nella Commissione Femminile della Camera del Lavoro. Successivamente entra a far parte del Comitato Centrale Fiom metalmeccanici, dirige i lavori sindacali, organizza convegni, incontri e scioperi in difesa del posto di lavoro.
Nel 1951 Giovanni Pesce lascia il partito e trova lavoro come rappresentante di caffè; riescono a comprare casa, nasce la figlia Tiziana, non ne avranno altri, «un po’ per le ristrettezze economiche e un po’ perché eravamo talmente impegnati a fare i rivoluzionari di professione da non avere il tempo utile per essere genitori. Una sera Tiziana ancora bambina mi disse a bruciapelo: io ti ho conosciuto a 8 anni, mamma!»
Nel tempo il commercio di Giovanni si sviluppa e Onorina, per seguirne la parte amministrativa, lascia la sua attività politico-sindacale ma continua ad essere, per 8 anni segretaria nella sezione Pci di Via Don Bosco. Il 27 gennaio 1962 le viene assegnata la Croce di guerra per la sua attività di partigiana.
Nel 1969 Nori e Giovanni aprono un locale di liquori e vini, il Bistrot in Via Zecca Vecchia, dura solo due anni ma è una parentesi felice. Lì si ritrovano scrittori, pittori, studenti, operai. La sera, chiuso il locale, vanno in sezione a fare attività per il Pci e per il Sindacato.
Nori Brambilla Pesce è stata Responsabile della Commissione femminile dell’ANPI, Presidente dell’Associazione ex perseguitati politici italiani antifascisti per la sede di Milano e Presidente onorario A.I.C.V.A.S., l’Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna.
«Si vuole falsificare la Resistenza, lo chiamano revisionismo ma spesso è falsificazione della storia. Noi siamo stati impegnati per tutta la vita per difendere la libertà, oggi ho 87 anni, non ho rimorsi, ho un rimpianto ma non voglio parlarne. Quando cala il sole chiudo le persiane perché non amo il buio della notte…»

NOTE

1. Le citazioni sono tratte da Onorina Brambilla Pesce, Il pane bianco, conversazione con Roberto Farina prefazione Franco Giannantoni, Varese, Edizioni Arterigere, 2010 o da interviste video presenti in rete.
2. Vedi la scheda del libro La bicicletta nella resistenza di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci.

Fonti, risorse bibliografiche, siti

Onorina Brambilla Pesce, Il pane bianco, Varese, Edizioni Arterigere, 2010

Giovanni Pesce, Senza tregua, Milano, Feltrinelli 1967

Marco Pozzi, Senza tregua, Film-documentario, 2003

Su YouTube:

Onorina Brambilla Pesce

Partigiana Onorina Brambilla Pesce

25 Aprile 2009: Onorina Brambilla Pesce

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