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Sempre un fiore per Giorgiana…

 

 

 

 

“Era una bella ragazza, occhi e capelli neri, labbra carnose”. “Era grassa o magra?” gli domandai a bruciapelo. “Alta o bassa?” lo incalzai quasi gridando. Scosse la testa e si strinse nelle spalle. “Santiago” esclamai esterrefatto, “mi stai descrivendo le fototessere di queste persone. Che senso ha?”

“Della maggior parte di loro non è rimasto altro” spiegò tranquillo segnalando con la freccia l’intenzione di svoltare, “le patotas portavano via tutto quello che potesse provare l’esistenza dei sequestrati. Bruciavano tutto. L’obiettivo non era solo quello di far sparire la gente, ma anche di distruggere la loro identità”.

Argentina, Italia… le belle facce dei ragazzi e delle ragazze degli anni 70, facce che, così, non esistono più, come ebbe a dire Tano D’Amico riferendosi non solo all’occhio dell’obiettivo del fotografo, ma anche alla memoria e ai tratti di una generazione che ha lottato, rischiato e pagato…

La bella faccia chiara e liscia di Giorgiana, l’espressione seria nella fotografia che conosciamo bene, quella della carta d’identità che non è diventata la fotografia del libretto universitario, perché Giorgiana, studentessa diciottenne del Liceo Scientifico Pasteur di Roma è stata ammazzata il 12 maggio del 1977 in piazza Belli, intorno alle ore 20.00, dalle pallottole esplose dalle squadre speciali del ministro degli Interni Francesco Cossiga, al termine di una giornata di mobilitazione, e scontri, che aveva visto in piazza Navona il sit- in organizzato dal Partito Radicale per celebrare il terzo anno dalla vittoria del referendum sul divorzio, iniziativa cui si era unito tutto il movimento a sfidare il divieto imposto da Cossiga ad ogni tipo di manifestazione pubblica a Roma ad eccezione di quelle delle forze politiche dell’arco costituzionale, per tutto il mese di maggio.

E’ una storia che possiamo continuare a raccontare per fotografie.

“Sia chiaro che d’ora in avanti a chi attaccherà lo Stato con le armi, lo Stato risponderà allo stesso modo. Voglio essere ancora più chiaro: non sarà più consentito che i figli dei contadini meridionali vengano uccisi dai figli della borghesia romana” , farnetica Cossiga.

Eccolo dunque uno dei figli del ministro degli Interni, si chiama Giovanni Santone, abiti trasandati, capelli lunghi, aria da finto autonomo, pistola in pugno, immortalato in una celebre foto di Tano d’Amico durante gli scontri con accanto un funzionario e un agente in divisa. Hanno appena ammazzato Giorgiana, i suoi colleghi, nel nome di un posto fisso da boia nelle squadre di Cossiga.

Il centro di Roma si è trasformato in una specie di accampamento militare. Tra camionette che si lanciano sulla folla per sbizzarrirsi in micidiali caroselli e selvaggi pestaggi di manifestanti e semplici passanti, manganellati senza alcun riguardo per l’età o per il sesso, si assiste presto a un fitto lancio di lacrimogeni mentre è praticamente impossibile contare le cariche dei celerini in assetto da guerra.

La battaglia continua per tutto il pomeriggio animata da una furia rara: le testimonianze di donne anziane prese a calci dai poliziotti o di tranquilli signori presi a manganellate si sprecano, ma lo scempio è appena cominciato.

In zona Trastevere, infatti, la polizia apre il fuoco contro manifestanti inermi.

Il panico, dopo ore di attacchi sanguinosi, si diffonde immediatamente e chi credeva di essere sceso in piazza per festeggiare il diritto al divorzio si ritrova a dover fuggire il più velocemente possibile se vuol portare a casa la pelle.

Mano nella mano, in piazza Belli, tra tanta gente che scappa ci sono anche Giorgiana Masi e Gianfranco Rampini: diciotto anni lei, venti lui. Scappano, e chissà dove vanno i loro desideri.

Un colpo alla nuca e Gianfranco fa ancora qualche passo, poi si rende conto di essere rimasto solo. Giorgiana è a terra.

Ricorda Giovanni Salvatore: “mi trovavo il 12 maggio, verso le 19.15 a Ponte Garibaldi. Su lungotevere Sanzio, proveniente da Ponte Sisto, ho visto un corteo a cui sono andato incontro per capire di cosa si trattasse. Ho raggiunto la testa del corteo : a questo punto la polizia che si trovava all’angolo tra Ponte Garibaldi e lungotevere Sanzio, ha lanciato bombe lacrimogene.

Sono scappato per una strada adiacente su Viale Trastevere, all’altezza di Piazza Sonnino. In quel momento la polizia è tornata indietro per fermarsi all’altro imbocco di Ponte Garibaldi, dalla parte di Via Arenula. All’imbocco del ponte dalla parte di Trastevere c’erano molte persone, sicuramente quelle che erano state disperse poco prima ed anche io mi sono fatto avanti per chiedere cosa stava succedendo. C’erano molte persone sedute sui gradini dei marciapiedi intorno a Piazza Belli, altre che facevano capannelli, mentre qualcuno ha posto al centro del ponte, facilmente riconoscibile per le sponde circolari, due macchine di traverso.

Questo era il quadro generale quando, verso le 19. 45 la polizia  attestata dall’altra parte dal ponte è avanzata sparando lacrimogeni.
Tra i rumori degli spari si udivano chiaramente spari molto più secchi, probabilmente da arma da fuoco. Ai primi spari stavano correndo tutti verso Viale Trastevere quando anche io ho iniziato a correre e davanti a me, di qualche metro sulla mia sinistra è caduta a faccia avanti una ragazza che ho superato in corsa. A questo punto mi sono voltato ed ho visto che era ancora a terra. Sono tornato indietro per aiutarla ad alzarsi. Ho provato a tirarla su ma non ce la facevo. Ho quindi invocato aiuto mentre continuavano a sentirsi spari di lacrimogeni ed altri spari, provenienti sempre da Ponte Garibaldi. A questo punto si sono fermate tre persone ed abbiamo sollevato la ragazza  per le gambe e le braccia. Io l’ho presa per il braccio sinistro.
Una volta sollevata l’abbiamo trasportata di corsa nello slargo vicino al capolinea. Durante il percorso ha mormorato: “Oddio che male”. La persona che la trasportava per il braccio destro ha risposto “sarà stata la botta, non ti preoccupare”. Io pensavo che fosse caduta inciampando o perché colpita da un lacrimogeno, anche perché non abbiamo notato tracce di sangue.
Adagiata per terra il corpo si è immediatamente irrigidito, le mascelle serrate, le braccia tese, gli occhi sbarrati. Qualcuno ha detto che forse era una crisi epilettica.  Si è fermata una macchina, abbiamo sollevato la ragazza e adagiata sul sedile posteriore. Ho riconosciuto il giorno successivo, sui giornali, Giorgiana Masi nella ragazza che ho soccorso”.

Ecco allora un’altra fotografia, quella di Elena Ascione, in ospedale, su una barella. Elena è stata colpita da un proiettile alla coscia mentre fuggiva verso piazza Sonnino, quasi nello stesso momento in cui veniva uccisa Giorgiana.

Lasciamo ad Elena la parola: “A un certo punto una parte della polizia si è mossa verso ponte Garibaldi. Non potendo attraversare mi sono mossa in direzione di Piazza Sonnino ed è a questo punto che si sono sentiti colpi d’arma da fuoco provenienti esclusivamente dalla parte in cui stava la polizia. Non sono in grado di precisare se erano colpi di pistola o di mitra. Io mi sono messa a scappare e sono stata colpita subito, mentre ero con le spalle verso il ponte e restando colpita da sinistra. Non ero in grado di vedere altre persone che cadevano. Erano circa le 20.”

Così simile, la foto di Elena, a quella di Marina Gamberini, il viso sconvolto da una smorfia di dolore ma anche di paura e rabbia, il viso di una ragazza di vent’anni in barella appena estratta dalle macerie dell’ufficio in cui lavorava, al piano di sopra della sala d’aspetto della stazione di Bologna, 2 agosto 1980, occhi sbarrati e bocca spalancata in un urlo che sembra lacerare l’aria, il tempo e lo spazio e pare gridare ciò che noi già sapevamo allora e oggi sappiamo: stesse pallottole, stesso movente, stessi mandanti.

Un’ultima fotografia, in bianco e nero anch’essa, di un manifesto, un fiore accanto, e sul cartellone una poesia per Giorgiana vergata dalle compagne femministe e posta lì, tra piazza Belli e ponte Garibaldi.

“Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interni. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Le forze dell’ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. Soprattutto i docenti. Non quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì” Francesco Kossiga, 23 ottobre 2008.

Materiali tratti e rielaborati da:

Le irregolari, Massimo Carlotto, e/o 1998

Cuori rossi, Cristiano Armati, Newton Compton, 2010


Posted in pensatoio, storie di donne.


One Response

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  1. elisa sgobba says

    vi scrivo sempre qualcosa e oggi lo faccio con un pò di emozione: bellissimo il taglio di quest’articolo, finalmente si sottolinea in modo semplice e diretto, con due foto, che cosa fu la strategia della tensione, dai compagni ammazzati alle stragi.
    grazie per lo splendido lavoro che fate sempre!
    elisa