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Sciopero generale!

Vi proponiamo, in occasione dello sciopero generale previsto per domani, 6 Maggio, contro la crisi e la precarietà, alcune riflessioni che Medea sta sviluppando a tutto campo sui temi della femminilizzazione del lavoro, della condizione delle donne nel mondo del lavoro e appunto sulla precarietà, partendo anche da elementi e argomenti forse non di immediato collegamento ma che abbiamo voluto in qualche modo, certo radicale, provare a mettere in relazione.

E, infatti, non per caso una parte di queste considerazioni trovò spazio tra i documenti e il materiale distribuito in occasione del corteo del 1 maggio dello scorso anno.

Nel mese di Aprile del 2008, il Gruppo Abele pubblicò i risultati, per dati e racconti, di una indagine relativa al fenomeno della prostituzione in Italia e tra i diversi aspetti esaminati uno ci colpì enormemente, inserendo nelle nostre riflessioni circa la condizione delle donne del mercato del lavoro degli anni 2000 una sottile inquietudine… si trattava di una  ricerca svolta nelle grandi aree metropolitane che svelava una realtà allarmante e di recente affermazione, genericamente descritta come fenomeno di prostituzione di ritorno, che sembrava interessasse donne non più giovanissime, in maggioranza di cittadinanza italiana, che o si erano prostituite in passato o non si erano mai prima prostituite, costrette a farlo a causa, secondo quanto verificato, della mancanza di alternative per guadagnare quanto necessario a se stesse o al mantenimento della propria famiglia.

Evidentemente fino a che era stato possibile esercitare un reale diritto a scegliere del proprio reddito, le donne, le cui interviste costituivano un passaggio importante dell’indagine, avevano appunto dichiarato di aver  preferito svolgere professioni molto diverse dalla prostituzione e, invece e proporzionalmente, quando dal mondo del lavoro “tradizionale” erano state buttate fuori, di essersi trovate davanti un’unica possibilità…vendere il proprio corpo.

Ci si è poste alcune domande, nell’ambito di un ragionamento costantemente in divenire: è possibile leggere questo fenomeno come una delle tante forme, seppur estrema, che può esser data in una realtà di quotidiano sfruttamento? Come, quanto e spingendosi fino a che punto è possibile far irrompere, nel discorso che lega corpo delle donne e politica, anche la variabile economica? Le parole crisi, reddito, precarietà rischiano, per le donne, di portare in sé anche un plus di significato che connette e incatena il corpo al discorso economico non solo come necessario termine di relazione nel binomio produzione/riproduzione ma anche, concretamente, come drammatica esperienza di sopravvivenza?

Il contesto di riferimento è inevitabilmente quello i cui processi e meccanismo economici, culturali e sociali abbiamo cominciato ad analizzare e studiare fin dai primi anni ’90, quando il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale cominciarono a parlare per la prima volta di “femminilizzazione” del lavoro, riferendosi non, come alcune femministe occidentali precedentemente, al massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro e in settori e professioni diversi e varie, avvenuto a cavallo tra anni ‘60 e ’70 del secolo scorso, quanto piuttosto alla tendenza del lavoro “degli uomini” e quindi di tutti, ad assumere caratteristiche e prerogative che erano tipiche della forza- lavoro femminile: flessibilità, frammentarietà, disponibilità totale di tempo e spazio, invisibilità, inadeguatezza della retribuzione e marcata assenza di diritti, tutele e garanzie.

Per citare lo scrittore e sociologo tedesco Ulrich Beck,  si è trattato “ della tendenza più attuale del mondo del lavoro, che non è, come ci si aspettava, l’entrata delle donne nel lavoro regolamentato degli uomini, bensì l’entrata degli uomini nel lavoro precario delle donne” …

Nel 1997, poi, con l’inserimento del capitolo Occupazione all’interno del Trattato dell’Unione Europea si avvia la cosiddetta Strategia Europea per l’Occupazione (SEO), con l’idea di coordinare le politiche nazionali in materia di occupazione ed esortando gli Stati membri ad agire in particolare sulla capacità di inserimento professionale (occupabilità) , sulla cosiddetta imprenditorialità, sulla capacità di adattamento (adattabilità) e sulle pari opportunità nel mercato del lavoro europeo.

La SEO ha costituito la base per la cosiddetta Strategia di Lisbona del 2000, con particolare attenzione all’occupazione femminile: a distanza di un decennio qual è stato l’impatto sulla vita delle donne, sulla nostra vita e quale quadro ne emerge?

Ecco qualche elemento: penultimo posto nell’Europa a 27, subito prima di Malta, per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile: 46.9% (Nord 57%, Sud 31.2%); 46.3% delle occupate impegnate nei servizi, nelle attività legate all’insegnamento e più genericamente alla cura, quindi settori tradizionalmente “femminili”, prova ne sia un dato: nella scuola dell’obbligo le insegnanti sono il 77.5% del totale, all’Università la loro presenza crolla al 33.5%; 1 su 5 ha una posizione tale da poter prendere decisioni in autonomia, meno di 1 su 3 ricopre ruoli “manageriali”;  quasi 1 su due denuncia salari bassi, assenza di protezioni sociali, progressiva limitazione di garanzie e diritti.

Una donna su 2 sotto i 24 anni ha un lavoro con contratto atipico, stesse percentuali per le donne sopra i 45 anni, il 26% delle donne tra i 24 e i 34 anni. Ad un anno di distanza dal primo contratto solo una su 10 arriva ad una stabilizzazione. In media guadagniamo meno di € 10.000 l’anno e poche riescono a scegliere di diventare madri prima dei 34 anni. Il 76% delle atipiche ha contratti di durata inferiore ai 12 mesi. I ¾ del totale delle donne occupate con contratti a termine ha un impiego part- time, ma solo il 36% dichiara di averlo scelto liberamente e nella quasi totalità dei casi le donne sottolineano come flessibilità voglia dire lavoro non garantito e mal pagato fuori casa e aumento del tempo da dedicare al lavoro gratuito e non riconosciuto in casa,  situazione che non fa altro che contribuire a cristallizzare la divisione di ruoli tradizionale: la cura della casa, dei bambini e degli anziani spetta comunque alle donne, ma visto che oggi uno stipendio non basta e i servizi (asili, nidi, presidi sanitari, consultori, strutture di assistenza) latitano, meglio che ci sia anche uno straccio di lavoro, che però non porti via troppo tempo alla famiglia.

Vedere, narrare, analizzare, descrivere: questa è l’esigenza che sentiamo urgente di fronte alle trasformazioni rilevanti che, a partire dall’organizzazione del lavoro, investe un intero modello sociale, culturale e, naturalmente, economico, di riferimento; una capacità di cui crediamo che le donne debbano essere protagoniste, perché riteniamo che partire dall’analisi della condizione femminile implichi una riflessione profonda sul mondo del lavoro in generale, sulla nostra società, sulle nostre relazioni, sui nostri bisogni e desideri, sui nostri tempi di vita.

Del resto che il nodo centrale sia proprio questo si è più che palesato negli ultimi anni, a partire dal Libro Bianco del Ministro Sacconi, per non dimenticare il Collegato Lavoro e naturalmente tutta quella lunga teoria di chiusure, delocalizzazioni, scomparsa di fabbriche, stabilimenti e aziende, in cui la sola presenza di operaie o dipendenti donne ha completamente cambiato il modo non solo di leggere il dato economico generale ma anche di immaginare e concretizzare le forme di lotta e resistenza.

Se la sede di Torino della Tecnimont chiude e si impone il trasferimento a Milano all’intero personale e a dire di no, quindi a porre il problema, sono alcune decine di impiegate che sono anche giovani madri, il punto cruciale non è semplicemente quello, ovvio, per cui nessun lavoro, per nessuno, è un lavoro sicuro a tal punto da consentire di fare progetti di vita e scelte come quella della maternità, e neppure che, ancora, far figli per una donna nel mercato del  lavoro prima o poi si paga e si paga salato, quanto piuttosto, assumiamolo definitivamente, che la vita stessa, le nostre vite, famiglia, città in cui vivere, studi, lavoro, sono come pedine su una scacchiera… assumere che ormai siamo noi, noi tutte e tutti, ad essere accessori o addirittura incompatibili con questo sistema, costituisce, infine, l’essenza stessa che mettiamo a fondamento delle nostre analisi, e, finalmente, se per le donne era già chiarissimo come segno del/sul corpo, forse questa nostra consapevolezza può diventare leva di conflitto per immaginare nuove e diverse future stagioni di lotta di donne e uomini, studenti e studentesse, lavoratori e lavoratrici, e non, precari e precarie…contro la crisi, certo, ma ancor più contro un intero sistema, culturale ed economico, quello che per il ministro Sacconi comincia con il concepimento e termina con la morte naturale.

In mezzo, vorrebbero, solo schiavitù.

Posted in corpi, LibroBiancoSacconi, pensatoio, precarietà, resistenze.