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Lavorare gratis e per tutta la vita!

Nel silenzio pressoché assoluto di tutti i mezzi d’informazione, il 19 ottobre è stato approvato il Ddl 1441 quater, conosciuto come “Collegato Lavoro”. Si tratta di un provvedimento difficile da capire perché, sebbene non attacchi frontalmente i diritti sostanziali, modifica la procedura in materia di diritto del lavoro, in modo tale che divenga estremamente difficile per lavoratori e lavoratrici accedere alla tutela dei propri diritti. Ciò avviene attraverso l’inserimento di due nuovi strumenti: l’arbitrato e le decadenze più brevi su tutta una serie di istituti di diritto del lavoro.

Il “Collegato Lavoro” si occupa anche, naturalmente, di occupazione femminile.

Occorre però fare due considerazioni essenziali per capire in che modo il tema venga effettivamente affrontato e quali siano i principi di base cui i due articoli dedicati, n. 21 e n.46, fanno riferimento:

–      la prima, per cui va sottolineato come il testo debba obbligatoriamente prevedere espressioni formali di impegno a favore dell’occupazione e dell’apprendistato femminile, nonché per l’individuazione e la rimozione di qualsiasi discriminazione legata al genere, a seguito della ricezione delle relative normative europee e in particolare del Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009, che impone agli stati membri di raggiungere una serie di obiettivi per quanto riguarda il lavoro delle donne. Questo per dire che l’insistenza, nel Collegato, e il ricorrere di alcune formule rituali non corrispondono necessariamente e per ogni passaggio a impegni concreti e vincolanti in materia ma rispondono ad una adesione dovuta del dettato legislativo italiano alle norme e ai trattati della UE;

–      la seconda, per cui va messo in risalto come i due articoli citati, il n.21 e il n.46, di fatto introducano due elementi, uno tecnico e uno politico, che non possiamo leggere positivamente: l’art. 21 di fatto cancella i comitati per le pari opportunità trasformandoli in altro organo e l’art. 46 ripropone con insistenza il binomio lavoro femminile/flessibilità e soprattutto lega indissolubilmente le donne al doppio e vecchissimo ruolo di lavoratrici fuori e dentro casa.

Per quanto riguarda l’art. 21 (modifiche alla legge 165/2001 “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, artt. 1, 7 e 56) vorremmo focalizzare l’ attenzione in particolare su alcuni passaggi, a cominciare proprio dal comma 1, in cui si fa riferimento alle condizioni del lavoro privato come quelle cui uniformarsi per la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti e a garanzia delle pari opportunità per le lavoratrici e i lavoratori.

Eppure quanto emerge dal lavoro di inchiesta e raccolta di testimonianze di lavoratrici del privato svolto in questi anni va, in generale, in una direzione molto diversa,  a tratti drammatica: dalla consuetudine a far firmare lettere di dimissioni senza data da utilizzare nel momento in cui si comunica una gravidanza, alle maternità programmate dalle stesse dipendenti a rotazione per non perdere il posto, dal rifiuto costante di concedere il part-time,  al lavoro notturno anche per madri di figli piccoli (vicenda Alitalia), è un lungo e parziale elenco di negazione di diritti e “pari opportunità”.

La Pubblica Amministrazione è a questo che deve uniformarsi? La risposta è contenuta poche righe dopo, infatti leggiamo che garantire pari opportunità e rilevare, contrastare ed eliminare ogni forma di discriminazione e/o violenza fisica o morale garantisce altresì un “ambiente di lavoro improntato al benessere organizzativo”…

Attenzione, il focus non è sul benessere della lavoratrice discriminata o del lavoratore che subisce una qualche forma di violenza ma, come ribadito a seguire, nel punto in cui si affronta il tema dei compiti di quello che era il comitato pari opportunità, sull’ ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e sull’efficienza delle prestazioni!

Veniamo ora all’analisi del punto c dell’art. 21, in cui viene prevista la cancellazione dei comitati pari opportunità e la creazione di un Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni.

Può essere utile ricordare che la nascita dei Comitati Pari Opportunità risale al 1984 quando, in concomitanza con altri paesi europei, veniva istituita in Italia la Commissione Nazionale per la Parità e la Pari Opportunità tra uomo e donna presso la Presidenza del Consiglio, che si affiancava al già esistente Comitato Nazionale Parità presso il Ministero del Lavoro creato nel 1983, organismo consultivo di supporto alle azioni intraprese dal Presidente del Consiglio con la finalità di raggiungere una parità sostanziale.

È sulla base di questi organismi che furono poi create le Commissioni Regionali di Parità, costituite con leggi regionali e le Commissioni di Parità provinciali e comunali, mentre nei luoghi di lavoro e in attuazione della Contrattazione Collettiva Nazionale di riferimento nascevano appunto i Comitati Pari Opportunità (CPO), a composizione mista e con compiti propositivi, consultivi e di verifica.

Infine nel 1995, sulla scia della Conferenza Mondiale delle donne di Pechino, nasceva il Ministero per le Pari Opportunità.

La genesi dei Cpo evidenzia due caratteristiche che riteniamo fondamentali quanto a significato e azione di tali organismi, vale a dire identità e obiettivi nettamente di genere.

Sostituire i Cpo con il Comitato unico di garanzia, che si occupa di un po’ di tutto, dal mobbing (per cui era previsto un comitato specifico) alle discriminazioni alla violenza morale o fisica (idem) significa cancellare quell’identità e non considerare che ciascuno degli ambiti di intervento appena elencati ha sue caratteristiche peculiari e diverse che necessiterebbero di azioni e competenze mirate e non di un contenitore anodino.

Contenitore le cui attività sono di definizione futura e incerta, infatti andranno disciplinate attraverso linee guida da emanare entro 90 giorni dall’entrata in vigore del Collegato, ma di cui sono ben chiari due elementi costitutivi: primo, a presiedere il Comitato dovrà essere un membro designato dall’amministrazione, ossia sarà il datore di lavoro del dipendente oggetto di discriminazione a scegliere il presidente dell’organo che dovrebbe verificare il comportamento vessatorio, e secondo, il finanziamento dei Comitati Unici è subordinato alle disponibilità di bilancio.

In conclusione, nulla di concreto se non un accorpamento di enti diversi a fini di bilancio, per creare un organismo che sembra esistere solo sulla carta.

Ancor più fumosa la formulazione dell’art. 46, dati i continui rimandi a future deleghe dell’esecutivo e agli impegni assunti a livello europeo, ma con alcuni passaggi davvero preoccupanti, anche se perfettamente in linea con l’azione legislativa in tema di lavoro femminile, stato sociale e flessibilità del mercato del lavoro portata avanti dai governi che si sono succeduti negli ultimi due decenni, ultimo e deleterio esempio la riforma del Welfare targata Sacconi.

L’art. 46 il cui titolo è: “differimento di termini per l’esercizio di deleghe in materia di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, incentivi all’occupazione e apprendistato e di occupazione femminile”, riprende alcuni comma della legge 247/2007, vale a dire la legge di attuazione del famigerato Protocollo Welfare del 23 luglio 2007, in particolare segnalandosi per l’insistenza sul controverso concetto di Livelli Essenziali delle Prestazioni, i LEP.

Infatti tutta la prima parte dell’art. 46 sì garantisce che lavoratori e lavoratrici siano uguali sull’intero territorio nazionale per quanto riguarda diritti civili e sociali, differenze di genere, condizione di immigrazione ma assicura questa uniformità di tutela nel rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni…

Domande aperte: quali sono le prestazioni che compitamente realizzano un determinato diritto civile e sociale? Qual è il livello ritenuto minimo o essenziale per quella data prestazione? Qual è il suo costo? Se lo Stato definisce i criteri per individuare i livelli minimi e Regioni Provincie e Comuni ne forniranno le prestazioni specifiche in regime di autonomia amministrativa e fiscale, come non immaginare uno scenario in cui in alcune regioni si fatichi a raggiungere il necessario minimo livello e in altre si possano invece fornire prestazioni di qualità e quantità superiore?

E soprattutto, come andrà a incidere sulle condizioni dei settori già più fragili, ovvero lavoratrici donne e lavoratori e lavoratrici migranti, prevedere forme di tutela che sono in partenza diseguali, legate prima a variabili di genere e nazionalità e poi anche alle risorse finanziarie a disposizione dei diversi territori regionali?

E infatti, come ben evidenziano tutti i dati e le indagini più recenti, nel mercato del lavoro non solo il lavoro stesso ma anche le relative forme di difesa e tutela sono elementi inversamente proporzionali al fatto di essere donna, immigrata e residente nel sud d’Italia…

Non meno importante la seconda parte dell’art. 46, in cui si attesta ufficialmente qual è il destino che una donna può attendersi: lavoro flessibile, ossia precario, se va bene part-time, presentato come positiva risposta alla necessità delle donne stesse di poter/dover conciliare tempi del lavoro e tempi della famiglia.

Al lavoro femminile viene quindi nel testo dell’articolo regolarmente e costantemente associato il termine flessibilità, declinato nelle sue varie possibili e fantasiose forme, dal telelavoro al lavoro a domicilio, e alla donna lavoratrice collegato, senza appello, anche il solito ruolo di angelo del focolare: liberare del tempo dal lavoro non è pensabile per sé, se sei donna ogni minuto strappato al datore di lavoro, alla fabbrica, all’ufficio, serve esclusivamente per correre a casa a occuparsi dei bambini, dei disabili, degli anziani!

Una donna ha un ruolo sociale, politico ed economico strettamente collegato o alla sua fragilità sul mercato del lavoro o alla vita familiare.

Una donna può aspirare solo a lavori precari, ovviamente mal pagati, ovviamente senza possibilità di avanzamento o carriera, ovviamente poco stimolanti.

Per una donna è normale, anzi, norma, che il mercato del lavoro funzioni come una porta girevole da cui si entra (quando?) e si esce per poi di nuovo rientrare.

Ma l’art. 46 riesce a spingersi anche oltre, arrivando alla beffa: se una donna decide di esercitare il proprio diritto di scelta nel campo del lavoro – e citiamo – ossia – e traduciamo – vuole a tutti i costi un lavoro “normale” e lo ottiene, insomma se proprio non ne può fare a meno, va supportata potenziando i servizi sul territorio, in particolare quelli per infanzia, minori disabili e anziani…

… Quali?

I ministri Tremonti Sacconi e Brunetta evidentemente si contraddicono a colpi di legge/i: tagliano i servizi (nidi, asili, tempo pieno, reparti ospedalieri e interi presidi sanitari), cancellano lo stato sociale, azzerano la spesa in tutti i settori legati alla salute, all’istruzione, alla formazione, smantellano tutto quanto è ancora pubblico e gratuito del Welfare per consegnarlo al privato e al volontariato, meglio se cattolico, ma nell’art. 46 ci prendono in giro proclamando enfaticamente che i servizi sociali vanno rafforzati e potenziati.

Come se non fosse ormai palese, persino indiscutibile, quanto per anni si è solo osato accennare ufficiosamente, vale a dire che lo Stato Sociale in Italia lo fanno le donne, cui si sono aggiunte altre donne, quelle del sud del mondo, che senza rete familiare non si sopravvive e che quando si parla di famiglia si fa riferimento a quel lavoro, sì lavoro, di cura assistenza sostegno e attenzione che sono le donne a svolgere. Gratuitamente e per tutta la vita.

In conclusione, se per la Consigliera Nazionale di Parità Alessandra Servidori (Pdl) questi articoli del collegato vanno valutati con serenità e prospettiva, pare chiaro a chi scrive che al di là di generici impegni ed espressioni formali ci sia ben poco, quel poco è negativo, se non concretamente certo a livello politico e culturale e che la prospettiva cui tende il collegato sia esattamente quella che la stessa Servidori ha additato mesi fa alle dipendenti della Omsa di Faenza, la cui produzione è stata trasferita in Serbia: andate a far le badanti o le baby-sitter.

Vi segnaliamo che è possibile scaricare altro materiale sul collegato lavoro dal sito dell’Assemblea dei lavoratori autoconvocati di Torino – Alato.

Posted in precarietà.


One Response

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  1. FC(c) says

    Vi segnalo lo slide sul Collegato lavoro fatto da Fotografi Contro (la Crisi) in collaborazione e per l’assemblea Diritti contro Ricatti di Torino.
    http://www.youtube.com/watch?v=htXC06mnFXM
    Diffondetelo!