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Come in una grande famiglia

Utilizziamo il blog per riproporvi alcune analisi e riflessioni che abbiamo elaborato e condiviso negli ultimi anni sui temi centrali del lavoro e della precarietà, dalla rigida contrapposizione dualistica tra il miraggio, o mito, del “lavoro fisso” e, appunto, la precarietà nelle sue due diverse tipologie date: da una parte la minaccia della sempre crescente assenza di tutele e diritti, dall’altra la bella illusione di poter scegliere, con autonomia e duttilità, tempi, modi, forme e organizzazione del proprio lavoro.

Riconoscendo quindi quanto le trasformazioni in atto del capitalismo nel mondo occidentale siano complesse, articolate e composite, riteniamo che categorie rigidamente dualistiche siano insufficienti a leggerle e a rappresentarle e, soprattutto, che oggi il nodo centrale e specifico in questa fase sia rappresentato da quel fenomeno comunemente detto della “femminilizzazione del lavoro”.

Vorremmo affrontare l’argomento con l’intento di evidenziarne tendenze e orientamenti generali, consapevoli della parzialità di un’analisi che prende in esame contesti specifici: parliamo quasi esclusivamente di Occidente, di ambiti territoriali, sociali e culturali definiti e di condizioni e settori lavorativi determinati; sottolineando inoltre, come anche all’interno di uno stesso paese, e l’esempio dell’Italia è il più significativo, la realtà sia eterogenea regione per regione e i contesti di riferimento molteplici…basti pensare a un dato tra i più significativi e centrale per il tema di cui oggi trattiamo, vale a dire quello relativo al divario tra occupazione femminile tra Nord e al Sud:  al Nord il tasso di occupazione femminile supera in media il 50% con picchi del 60% in Emilia Romagna, mentre nel Mezzogiorno solo 27 donne su 100 lavorano regolarmente.

Ma allora che cosa si intende quando si parla di “femminilizzazione del lavoro”?

In primo luogo, e inizialmente, l’aumento delle donne nel mercato del lavoro in ogni settore e in tutte le forme contrattuali, non solo in quelle precarie, in seconda battuta, “il” lavoro di oggi, in cui quelli che storicamente e simbolicamente vengono considerati comportamenti e qualità tipicamente femminili sono appunto assunti a modello della produzione.

L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro ha costituito un passaggio decisivo: poter studiare, potersi formarsi professionalmente, avere accesso e assicurarsi un reddito proprio, mettersi alla prova, entrare in relazione con un mondo non più circoscritto alla sfera della famiglia e degli affetti  ha finalmente garantito indipendenza alle donne, non solo economica, ribaltando ruoli ormai consolidati.

Flessibilità, capacità di gestire tempi complessi, tessere relazioni, orizzontalità, attenzione e ascolto delle diverse esigenze, disponibilità e investimento emotivo sono solo alcune delle caratteristiche che le donne hanno qualitativamente trasferito dal lavoro di cura a quello salariato, modificandone profondamente gli assetti e anche mettendone in discussione la centralità.

Infatti le donne, che hanno ben presente il nesso inscindibile che esiste tra produzione e riproduzione, vivendolo quotidianamente sulla propria pelle, hanno reso palese anche le contraddizioni di un mondo del lavoro che non tiene affatto conto dei tempi della persona, che aliena e consuma, che calpesta i bisogni, che rende uomini e donne astrazioni numeriche e cancella desideri, aspettative e soggettività reali.

Non è casuale che questa rivoluzione nell’approccio al lavoro sia venuta dalle donne, che si sono date la pratica del partire da sé e della compatibilità tra l’impegno di lavoro con le esigenze affettive, familiari e personali come metro e tensione di vita.

Il capitale ha reagito in fretta, prima disinnescando quelli che potevano essere elementi davvero antagonisti e poi ne ha sfruttato le potenzialità, appropriandosene, centrifugandole e restituendocele in negativo, e infatti diventano, anche linguisticamente, “instabilità”, “labilità, “fragilità”… in una parola: precarietà.

Oggi il tempo che le donne volevano liberare dal lavoro è diventato funzionale alle esigenze delle imprese…e sono le prime a farne le spese, sia in termini di occupazione, sia per quanto riguarda gli ambiti lavorativi in cui sono maggiormente presenti, e qui possiamo davvero parlare quasi di segregazione, e infine, rispetto alla durata della condizione di precarietà, che non è più una modalità iniziale di accesso al mondo del lavoro, ma, soprattutto per le giovani donne del Sud, una condanna a vita. C’è da chiedersi che tipo di vita…

Femminilizzazione è, di fatto, diventato sinonimo di precarietà: il modo tipico delle donne di stare nel mondo del lavoro, vale a dire la capacità (o necessità, si pensi alla maternità) di entrarne e uscirne, la disponibilità senza interruzioni, peculiare del lavoro di cura, la necessità di moltiplicare il tempo all’infinito, altro elemento caratteristico del lavoro di riproduzione, il mettere in gioco se stesse, la propria sfera emotiva e le proprie capacità, soprattutto la propria soggettività, la mancanza di confini netti tra lavoro e non lavoro a livello di spazi e di tempi, il privilegiare l’aspetto relazionale sono tutti elementi ormai assunti a modello della produzione e hanno un valore enorme perché è tutto ciò che oggi il mercato chiede al nuovo lavoratore e alla nuova lavoratrice.

Quello che le donne hanno sempre espresso nel lavoro domestico e nella vita privata è diventato paradigma del lavoro in questa fase di trasformazione dei processi e dei contesti produttivi.

Ci limitiamo ad accennare, citando Cristina Morini, alla complessa questione della quantificazione e della valorizzazione di tutto il lavoro invisibile che anche in ambito produttivo – esattamente come è stato ed è in ambito riproduttivo – esiste e viene tradotto in “merce”. E, quindi, tutto il discorso relativo al capitalismo cognitivo e al nesso con la femminilizzazione del lavoro che riteniamo tema centrale dell’incontro di oggi.

Se accettiamo, inoltre,  il presupposto secondo cui in questa fase sembra dominante la produzione e il consumo di beni immateriali e tutta la sfera di servizi ad essi associati, e se è vero che, come i dati evidenziano, è quello dell’immaterialità l’ambito primario in cui le donne risultano occupate,   allora il discorso sul legame tra femminilizzazione, soggettività e capitalismo cosiddetto cognitivo risulta ancora più palese.

In conclusione, se quello che l’impresa vuole dal lavoratore e dalla lavoratrice è la vita stessa, come in un matrimonio (e a questo riguardo è interessante la riflessione di Adriana Nannicini, che mette in luce come spesso il vocabolario di cui servirsi sia quello del discorso amoroso, per rappresentare un mondo che non è affatto quello dei sentimenti!) o come, e chi non lo ha sentito dire, in una grande famiglia!, proponiamo di affiancare al termine femminilizzazione un neologismo che ci pare più efficace: familizzazione del lavoro, riferendoci proprio a quel modello di famiglia che abbiamo tentano di scardinare, con i suoi ricatti e i suoi silenzi, difficilissimi da abbattere e contro cui oggi sono necessarie nuove strategie di resistenza e conflitto, da ripensare e praticare da soggetti ma collettivamente.

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