“Quella «vita» che con la sua tirannia etica domina il discorso contemporaneo appartiene alla storia dell’illusione dell’inganno – o forse della religione – non alla storia del corpo.”
Barbara Duden, 1994
Questo libro si pone l’obiettivo di scardinare la falsa retorica sulla vita che si è sviluppata intorno al tema dell’aborto. Partendo dall’assunto che, nell’ultimo secolo, nuove tecniche e forme di espressione hanno completamente mutato il modo di concepire e di vivere la gravidanza, l’autrice si interroga sulle ragioni per cui il bambino sia diventato un feto, la donna incinta “un sistema uterino di approvvigionamento”, il nascituro una vita e la vita un valore cattolico-laico, quindi onnicomprensivo. Barbara Duden sostiene la tesi, elaborata anche nel corso di un’ininterrotta conversazione con Ivan Illich, secondo cui il feto intrauterino – del quale oggi tutti parlano – non è una creatura di Dio o della natura, bensì della società moderna.
Nel corso dell’opera, l’autrice cerca di ricostruire la storia del corpo e insieme il racconto di come le donne abbiano conosciuto il loro corpo. Il libro però non tratta di un aspetto fisico specifico, bensì di una condizione della donna: la gravidanza. E da questo scelta di campo parte l’indagine della Duden per comprendere come sia nato il feto, o meglio “il fantasma del feto”. Un’indagine che ripercorre le tracce di una storia del sentire e del vedere dall’interno, ovvero la storia dell’esperienza “nell’oscurità sotto la pelle”.
Se fino agli Anni Sessanta, esisteva ancora nella percezione della maggior parte delle persone un confine, seppur impreciso, tra rappresentazione visiva e riproduzione, oggi vediamo sempre più ciò che ci viene mostrato e crediamo di vedere illimitatamente. Questa perdita d’orizzonte degli ultimi anni ha cancellato “il confine”. Così anche la pelle ha cessato di costituire una frontiera e facciamo sempre più fatica a distinguere la differenza tra ciò che vediamo e ciò che ci viene mostrato.
Questa tendenza alla visualizzazione presuppone una propensione ad attribuire lo status di realtà solo a ciò che può essere registrato strumentalmente. In passato c’era un dentro che doveva essere sentito perché non poteva essere visto. Nella nostra epoca tutto questo è cambiato.
Il prolungato esercizio quotidiano con gli strumenti che costruiscono lo sguardo ha portato la percezione visiva a dominare completamente gli altri sensi, tanto da paralizzare tatto, olfatto, gusto e intuito.
Che cosa hanno da dire le donne al buon cristiano che cerca il suo prossimo nel loro ventre?
Ratzinger, quando ancora era cardinale nel 1987, scriveva de “Il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione”. In questi testi esigeva che la cellula fecondata, prima ancora che si annidasse nella mucosa uterina, fosse riconosciuta come “vita umana” e descriveva l’oggetto ricorrendo a termini proprio della più moderna embriologia. Il cardinale conferiva così a un oggetto definito biologicamente un carattere di realtà, ne faceva un tema di un postulato morale-religioso e in questo ambito lo trasformava in soggetto. Per riuscire nella sua opera di dissuasione, riprendeva il racconto del buon samaritano che deve riconoscere anche il più piccolo tra i figli degli uomini come suo prossimo. Basandosi su una constatazione cui è possibile giungere solo in laboratorio, utilizzando una terminologia strettamente biologica, il documento invitava tutti gli essere umani all’amore per un “fratello” invisibile, privo di volto e di membra.
L’esortazione del cardinale a vedere come persone nella fotografia dello zigote un “essere umano” nella sua interezza fisica e spirituale, ha prodotto un concetto totalmente nuovo dei termini “fisico” e “vedere”. Il secolare conflitto tra fede e scienza sembra così dissolversi. La Chiesa si serve della scienza e utilizza dati di fatto biologici per arrivare a conclusioni di tipo etico e politico.
Dal primo movimento al feto pubblico
La storia di Barbara Duden, parte da lontano, tanto che intravede già in Leonardo Da Vinci il precursore della moderna visione. Lo sguardo di Leonardo penetra nel corpo e con lui la pelle diventa trasparente. Il disegno non è più solo un sostegno alla descrizione, ma un mezzo ottico necessario per offrire allo sguardo le parti del corpo in modo tale che possano essere viste nella loro forma.
Nel 1774 viene invece pubblicato il primo grande atlante anatomico che illustrava minuziosamente ogni parte del corpo. Rimaneva solo l’utero della donna incinta a lasciarsi guardare con gli occhi della tradizione. Il nascituro infatti veniva ancora disegnato come un putto tondeggiante.
La svolta è arrivata però con le prime invenzioni tecniche, dallo stetoscopio che registrava i battiti cardiaci (anche del feto), ai raggi x nel XIX secolo, fino all’ecografia scoperta negli Anni Sessanta. Quest’ultima, che ha dato l’illusione di eliminare ogni confine visivo, è una registrazione dell’eco di impercettibili ultrasuoni tradotti in valori, a loro volta tradotti in toni di grigio.
Secondo la Duden è anche attraverso l’ecografia che il corpo della donna è stato espropriato e l’embrione a sua volta personificato. Questa tecnica, che ricopre simbolicamente un ruolo dominante, ha condizionato fortemente la donna incinta, producendo in lei nuovi bisogni e nuove paure.
Consente alle donne di “guardare” nel proprio ventre, e così facendo le induce a conferire all’emblema lo status di realtà. Il confine tra dentro e fuori scompare e il suo ventre e il ventre pubblico si fondono in un tutto: la sua gravidanza viene occupata dal feto pubblico.
Un tempo le donne erano veramente incinte solo quando il feto cominciava a muoversi dentro il loro corpo e loro lo percepivano. Questo movimento aveva un importante significato sociale innanzitutto perché era un modo di sentire inaccessibile all’uomo, squisitamente femminile. Nessuna donna che non affermasse di esserlo era considerata incinta. Non le veniva attribuita questa condizione se non era lei stessa a comunicarlo.
Oggi sintomo della gravidanza non è più una percezione di tipo tattile, ma l’esito di un test chimico.
L’esperienza femminile del primo movimento è scomparsa prima nelle mani dell’ostetrico, poi con l’uso dello stetoscopio, poi dei raggi X e infine dell’apparecchio ecografico. Tutti strumenti che secondo l’autrice “hanno occupato dall’interno il corpo della donna, esponendolo a uno sguardo pubblico”.
Il feto non è sempre stato
Oggi si parla della gravidanza solo in funzione di un feto, di una “vita umana”. Il potere dell’esibizione pubblica del feto nell’arena politica è incredibile. “Il feto si accattiva la simpatia della gente come il bambino etiope con il ventre gonfio” ci dice l’autrice.
Il feto era definito dagli antichi dizionari come frutto della terra, frutto del ventre. Per gli antichi romani il nascituro non era altro che una parte delle viscere interne della madre e il diritto dell’epoca infatti non salvaguardava una vita in utero. Dopo il 1800 il termine feto è entrato nel linguaggio corrente riferendosi però al mondo animale, quasi fosse un frutto che cresce nel corpo come una pianta. Il primo a parlare di una presunta persona nel ventre materno è un giurista inglese del sec XVIII. Solo più tardi, l’eliminazione del feto, sia medica che criminale, diventa oggetto del diritto.
Oggi la donna è invece costretta a vivere come “ecosistema del feto”. È solo più riproduttrice di una vita. La gravidanza e il nascituro hanno assunto un significato personale e sociale completamente diversi rispetto al passato. Fino a poco tempo fa non esisteva un’idea o un simbolo paragonabile al feto d’oggi: né in medicina, né nel diritto, nella chiesa o nella politica. Il feto è il tipico objectum nostri temporis, dice la Duden e tipico della nostra epoca è anche “l’incarnazione dell’emblema feto come esperienza fisica”.
L’autrice si serve degli appunti e degli scritti di alcuni medici che operarono in altre epoche e da essi trae preziosi insegnamenti. Se un tempo era il primo movimento del bambino nel grembo materno a determinare lo status di donna incinta, oggi questo significato si è perso completamente dimostrando la privatizzazione storico-culturale della donna, che va di pari passo con il crescente significato pubblico della sua fisiologia e del suo corpo. Il primo movimento del feto ha perso di significato anche per la donna stessa. Tutto questo rientra in un quadro di sovvertimento generale, “da una condizione fisica di tipo tattile a una di tipo geometrico-visuale”, così come la definisce Barbara Duden.
Il feto non è nemmeno più un simbolo, ma una raffigurazione. La madre non esiste più, è ridotta a involucro, a bolla trasparente. L’oggetto ha acquisito vita propria, tutti lo accettano come “vita umana”; qualcuno esige addirittura il riconoscimento dei suoi “diritti umani”.
La realtà corrispondente all’oggetto viene “creata” scientificamente, solennemente rimescolata dai media, quindi ingoiata dalle donne senza discutere.
La storia del feto è in massima parte la storia di una visualizzazione. Il feto tuttavia è divenuto visibile non grazie al nostro sguardo, ma attraverso l’utilizzo di strumenti ottici che ci hanno mostrato qualcosa di invisibile. Sarebbe interessante approfondire in questo senso l’effetto degli strumenti ottici sullo sguardo di un’epoca, sulla costruzione della visione attraverso le tecniche e le nuove possibilità tecnologiche.
L’ingresso dello sguardo nel corpo della donna partecipa alla tendenza che da una parte rinchiude la donna (attraverso le leggi, l’educazione e l’etica) nella sfera privata e dall’altra offre il suo grembo al pubblico. Il corpo della donna diventa il luogo nel quale si compie un processo che riguarda direttamente lo stato, la salute pubblica, la chiesa, il marito. La donna viene per certi versi socializzata: il suo vissuto diventa un fatto privato e il fatto scientifico dell’annidamento dell’ovulo fecondato assume una funzione sociale.
Oggetto “feto” come emblema dei media
Nel nostro secolo ognuno pretende di essere competente in fatto di vita e sul significato da attribuirle. Un fatto scientifico viene trasformato in una parola che rientra nello stile di pensiero della Chiesa. Nozioni che da tempo sono patrimonio comune dei biologi si ingarbugliano in questo feticcio dando vita a qualcosa di accreditato dalla giurisprudenza e dalla Chiesa, che avanza al tempo stesso pretese di realtà scientifica e di comprensibilità generale.
Barbara Duden analizza il percorso lungo il quale i “fatti” biologici penetrano nel nostro vissuto attraverso la loro trasformazione in emblemi mediali. Il feto è diventato tema di conversazione alla televisione e attraverso di essa, il blastocita, oltre che nella mucosa uterina, si insedia come un emblema nella coscienza popolare. Ciò che nei discorsi tra scienziati erano tessuti, cellule, diventa con la proiezione nel salotto di casa, un essere umano, già ammirato come una vita. Si equipara la cellula a una vita. Qui sta la trappola epistemologica per l’autrice, che chiede alle sue lettrici e ai suoi lettori di rifiutarsi di prendere parte ad un discorso in cui si parli di “vita” in riferimento alla condizione di una donna incinta.
Da emblema a idolo
Come dicevo in precedenza, il percorso dell’autrice parte da lontano. Se per comprendere i processi che hanno elaborato e formato la moderna visione si serve dell’esperienza anticipatrice di Leonardo, per ricostruire i percorsi che hanno prodotto questa sorta di idolatria del feto, la Duden recupera addirittura le filosofie presocratiche.
A quel tempo, la natura vivente era espressa in versioni animistiche e idealistiche. La natura veniva raffigurata come madre che dà alla luce gli esseri senza vita e gli esseri viventi. In questo contesto la gravidanza di una donna costituiva un’analogia con gli eventi naturali, la nascita di un nuovo essere vivente.
Da Sant’Agostino fino al Medio Evo l’essere della natura assume un nuovo carattere trascendentale, però era ancora madre. La natura diventa però una realtà che non porta in sé la causa del suo essere così come è. La forza creatrice della natura si spiega come un atto di sovranità di Dio. La natura dà vita perché è nelle mani di Dio.
L’inizio del pensiero contemporaneo può essere rintracciato secondo l’autrice nel tentativo di liberare la natura da questa contingenza, da questo essere viva grazie alla vita di Dio. Tuttavia con questa liberazione è andata perduta non solo la contingenza del cosmo cristiano, ma anche la vitalità del cosmo greco.
La natura muore in quando madre e dispensatrice di vita. A questo punto per la Duden si comincia a evocare l’idolo “vita”, privo di contenuto, per riempire con esso il vuoto storico venutosi a creare.
In un contesto che reclama la sopravvivenza a tutti i costi per superare le crisi individuali, sociali, globali, l’emblema feto/vita diviene idolo. Se in passato il sacrum era sempre stato un oggetto, una cosa che poteva essere vista senza bisogno di apparire o di essere rappresentata, oggi il feto (oggetto non poi così reale) ha bisogno di essere mostrato. Assolutamente insolito è anche il luogo all’interno del quale questo feticcio si trova: il corpo della donna.
Dopo la morte di Madre Natura e del Dio Vivente, conclude l’autrice, la donna è diventata il life support system del feto e insieme il teatro della ierafonia di quell’idolo che non solo si è incarnato in un’esperienza di fede, ma che è stato socialmente trasferito dentro di lei.
Il discorso sulla donna incinta si è spostato verso una nuova direzione – la donna incinta quale condizione per la riproduzione della vita umana. Nello specifico il discorso si snoda intorno al problema del possesso e del controllo sulla riproduzione, “attività” propriamente femminile su cui lo Stato, la Chiesa, il sistema patriarcale e capitalistico, vorrebbero metter mano. Il consenso alla divinizzazione della vita si spiega proprio con questo spostamento semantico: il nuovo peso attribuito alla “sopravvivenza”. Questa la tesi conclusiva di Barbara Duden.
Il gusto della vita è determinato non tanto dalla gioia per la vitalità della natura, ma dalla paura per la vita, per il suo possesso, per la sua sicurezza, dal tentativo di pianificarla e migliorarla.
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