Vi proponiamo qui di seguito la nostra traduzione di un articolo apparso a gennaio su Le monde diplomatique. In sè, essendo un articolo di giornale, non è su posizioni particolarmente rivoluzionarie, attestandosi piuttosto su un femminismo dei diritti laico, riformista, schiettamente liberal-democratico. Lo riteniamo comunque interessante perchè fornisce notizie, in genere scarse se non assenti, sullo stato delle leggi dei diritti e non solo, in alcuni paesi. Notizie purtroppo scarse anche nella contro-informazione, persino in quella femminista militante. Tra le note, oltre a quelle dell’originale, abbiamo aggiunto una spiegazione (nota 5) molto sintetica su una casa editrice femminista, la prima in India, citata nel testo ma non nominata. Abbiamo inoltre riportato anche i due link alle due case editrici femministe post-colonial studies nate dalla diaspora di Kali for Women, per chi fosse curiosa/o e ne volesse sapere di più. La parte finale dell’articolo è dedicata ad alcune considerazioni e informazioni sui movimenti femministi religiosi (islamici). E’ un tema controverso, spinoso anche, forse persino un ossimoro, forse…però è un argomento davvero interessante con cui anche un femminismo occidentale, militante, radicale, potrebbe avere voglia di confontarsi sul piano teorico. Dal taglio dell’articolo ci sembra oltretutto che l’autrice intenda mettere in luce in particolare una questione: se è vero che la sfera della famiglia resta impensata per femminismi storici in Medio-Oriente, India, ecc., che tradizionalmente si sono legati alle lotte anti-colonialiste, pare che emerga, dall’articolo che della condizione femminile in famiglia se ne stia occupando soprattutto il cosiddetto femminismo islamico. Può essere una tesi interessante e da mettere alla prova…
“Rinnovamento del femminismo a Sud” di Camille Sarret
Il prisma paternalista attraverso il quale sovente ci giunge filtrato il destino delle donne dell’Africa, dell’Asia, del Medio Oriente tende ad occultare le loro lotte. Come in Occidente, la loro condizione, lungi dall’essere un’invariante culturale, è il bersaglio di lotte che mirano alla conquista di nuovi diritti e a farla finita con violenze o discriminazioni…Lo testimoniano i casi del Rwanda, dell’Afghanistan, dell’India e del Marocco.
Il ritorno sulla storia del femminismo che ha contraddistinto il 2010, quarantesimo anniversario della nascita, in Francia, del Movimento di Liberazione delle Donne (MLF), non deve farci dimenticare le donne del Sud del mondo, le loro lotte ed i loro contributi al rinnovamento del femminismo stesso. Si tende a farne troppo facilmente delle mere vittime, invece spesso sono in rivolta contro l’ordine stabilito e le diseguaglianze frutto di certe tradizioni.
Ad esempio, si sa che l’unico paese al mondo in cui le donne rappresentano la maggioranza in Parlamento è il Rwanda? A partire dalle elezioni generali del 2008, il 56,3% degli eletti è donna: un risultato da far invidia ai paesi scandinavi, campioni europei della parità politica. Le donne rwandesi, tra l’altro, hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1961, con l’indipendenza del paese. Nel 1965 la prima eletta al Parlamento, ma fino agli anni ’90 le donne sono state pressochè assenti nel mondo politico. E’ stato il genocidio dei Tutsi, nel 1994, a cambiare le carte in tavola. “Quando molti uomini erano morti o feriti, le donne hanno assunto delle responsabilità cui hanno dimostrato di saper essere all’altezza -ricorda Immaculée Ingabire, coordinatrice della Coalizione Nazionale contro le violenze sulle donne- . Benchè vittime degli strupri di massa, sono state le donne a far uscire il Paese dal caos, e con ciò hanno rotto con il maschilismo tradizionale“. 1*
Dopo il genocidio, le donne sono a capo di circa un terzo delle famiglie, sono impiegate in ambiti lavorativi tradizionalmente maschili, come l’edilizia e il settore meccanico, e aderiscono numerosissime ai partiti politici. Hanno partecipato alla stesura della Costituzione nel 2001, e sono riuscite a farvi inserire un sistema di quote che riserva alle donne il 30% dei posti in tutti gli organi decisionali, così come il diritto all’eredità.
Hanno preteso anche la creazione di un Ministero del genere e della condizione femminile, e riescono a far funzionare dei consigli nazionali femminili che sono un esempio di rappresentanza femminile ad ogni livello di potere (dal quartiere fino ai vertici dello Stato). Al governo, sono donne i ministri dell’industria, dell’agricoltura, degli affari esteri e dell’energia.
Tuttavia persistono delle criticità. Nell’amministrazione centrale, secondo un rapporto ministeriale “il 74% dei segretari generali nei ministeri, così come l’81% dei direttori e il 67% degli agenti sono uomini. Le donne sono invece la maggioranza come assistenti amministrative e segretarie.” Allo stesso modo, nel privato, la maggioranza delle donne occupa “posti di lavoro precari e scarsamente retribuiti (…) Solo il 18% delle imprese del settore formale è diretto da donne“.2*
Il quadro resta cupo a causa delle diffuse violenze:”Esiste una reale volontà politica, ma è necessario fare ulteriormente progredire la mentalità, dice M.Ingabire, e mostrare che la cultura non è immutabile, e che tutta la società è capace di far evolvere le proprie tradizioni. Oggi io confido nelle nuove generazioni“.
Una deputata afghana di 27 anni
Tutt’altra è la situazione in Afghanistan. Sotto la presidenza di M.Hamid Karzai, le violenze domestiche, le morti, gli stupri e le aggressioni con l’acido sono state in costante aumento. Malgrado tutto, però, le donne non stanno in silenzio. Hanno delle porta-voce, come Malalai Joya, eletta al Parlamento nel 2005, all’età di 27 anni: la più giovane deputata dell’emiciclo.
M.Joya ha trascorso parte della sua infanzia e della sua giovinezza in un campo di rifugiati pakistani, andando a scuola e imparando l’inglese. Sotto i talebani, tornata nella città natale di Farah, si è occupata di un dispensario e dei corsi clandestini di alfabetizzazione per le donne. Ma, “fin dal suo debutto in politica, racconta la sociologa Carol Mann, si è attirata l’antipatia dei colleghi parlamentari maschi, ai quali non ha mai smesso di ricordare il loro passato di signori della guerra, di trafficanti di droga e di militanti islamici oltranzisti. Senza tregua accusa la politica statale, che ignora i diritti umani, in particolare quelli delle donne“.3*
M.Joya è sfuggita a numerosi attentati, e i suoi principali nemici sono i partiti reazionari e i fondamentalisti religiosi. A Kabul è stata aggredita persino da alcuni parlamentari. “Mi uccideranno – ha dichiarato nel 2007 – ma non uccideranno la mia voce, perchè sarà la voce di tutte le donne afghane“. 4*E alcune di loro, indossando il burqa e armate di cartelli, hanno le hanno già manifestato il loro sostegno a Farah, Jalalabad e Kabul. Non è tutto: è stata anche estromessa dal Parlamento in seguito ad un’intervista televisiva in cui paragonava l’assemblea afghana ad uno zoo…Shoukria Haidar, presidente del NEGAR, una delle più importanti associazioni femminili del paese, paventa un ritorno al potere dei talebani dopo che il presidente Karzai, alla conferenza di Londra, nel gennaio 2010, ha presentato alle potenze occidentali la sua politica della “mano tesa”: a giugno a riunito 1600 rappresentanti delle tribù e della società civile in una loya jirga ( “grande assemblea”). S.Haidar temeva l’espunzione dalla Costituzione del principio dell’eguaglianza tra uomini e donne, per il quale si era battuta nei due anni precedenti la caduta dei talebani: alla fine i testi fondamentali non sono stati toccati, ma come ha rilevato Human Rights Watch, ” il governo afghano e i suoi sostenitori internazionali non hanno tenuto conto della necessità di difendere le donne all’interno dei programmi di reintegrazione dei combattenti insorti ed hanno omesso di garantire l’inclusione dei loro diritti durante le trattative con i talebani.”5*
Altra situazione ancora è quella dell’India, dove lo Stato ha adottato il principio di uguaglianza tra i sessi, integrandovi il concetto di genere. “Oggi le donne indiane beneficiano di eccellenti politiche pubbliche, sostiene Urvashi Butalia, che dirige da più di vent’anni una casa editrice d’ispirazione femminista a New Delhi 6*- nei piani quinquennali, le donne occupano un posto specifico. Recentemente, per aiutare i più poveri ed in particolare le donne, lo Stato Indiano ha istituito un salario minimo giornaliero per lavori di interesse generale come la manutenzione e la pulizia delle strade. Nel 2005 è stata anche promulgata una legge contro le violenze domestiche – una delle migliori al mondo, sostiene sempre U. Butalia. La legge permette di proteggere le donne non solo dalla violenza di mariti e figli, ma anche da quella delle famiglie d’origine, con le quali coabitano. Intanto il fenomeno drammatico delle dowry deaths – le morti per dote insufficiente- non è ancora stato arginato. Secondo stime non ufficiali, circa 25.000 donne verrebbero uccise ogni anno perchè la loro famiglia non riesce a soddisfare le incessanti richieste di quella del promesso sposo. Benchè proibita dal 1961, la pratica della dote è tornata prepotentemente in auge a partire dalla fine degli anni ’80. “Oggi, a prescindere dal ceto sociale e dalla casta, tutti la praticano: deputati, industriali, giornalisti…spiega il ricercatore Max-Jean Zins. Mal vista negli anni ’70, la dote è diventata un simbolo per ostentare ricchezza e potere. Per le donne d’origine più modesta, rappresenta il modo più svelto per accedere al consumo, cuore del sistema socio-economico dell’India moderna. La donna indiana è diventata oggetto destinata a (far) accedere ad altri oggetti. E ciò che la rende più fragile.”
Ma c’è di più: in India “mancano” circa 40 milioni di donne. Questa cifra è in primis dovuta alla pratica estremamente diffusa del “feticidio” ( l’eliminazione dei feti di sesso femminile identificati durante le ecografie), ed anche ad una forma di negligenza nei confronti delle bambine, cui si riservano molte meno cure al confronto con i fratelli maschi. “Solo intorno ai 34 anni le donne raggiungono una speranza di vita equivalente a quella degli uomini” nota Zins.
Sotto il profilo politico, di contro, le donne sono relativamente potenti. La più grande democrazia deel mondo ha introdotto, a partire dal 1992, delle quote alle elezioni municipali. “Ciò ha innescato dei profondi mutamenti a livello locale. Tuttavia, in seguito a questi successi, gli uomini politici rifiutano di introdurre un simile sistema anche alle elezioni legislative“, rivela U.Butalia.
Nei paesi del Sud, che sono stati in maggioranza colonie o protettorati, le pioniere del femminismo moderno provenivano, come in Occidente, da milieux marxisti, ma hanno definito la loro militanza attraverso le lotte anti-colonialistiche per l’indipendenza. Citando il caso delle combattenti indiane Martine van Woerkens afferma: “Avevano una visione della futura nazione che associava inscindibilmente l’autonomia politica all’emancipazione femminile.”7*
In Egitto, negli anni ’20, Huda Sharawi fonda l’Unione Femminista Egiziana, e si impegna nelle lotte nazionaliste. Nel 1929, alla stazione del Cairo, dà scandalo scendendo dal treno senza velo: un gesto ripreso poco dopo da moltissime Egiziane durante una manifestazione contro il mandato britannico.
Nell’impero delle Indie Britanniche, è Kamaladevi Chattopadhyay ad incarnare questo duplice impegno feminista e nazionalista. “Membro dell’aristocrazia brahmina, ricca e colta, vicina alla causa nazionalista e riformista, fu al fianco di Gandhi e Nehru nelle lotte che precedettero e seguirono l’indipendenza“, racconta ancora M. Van Woerkens. Fu lei a convincere Gandhi ad autorizzare il ricongiungimento delle donne ai loro mariti durante la Marcia del Sale, una mobilitazione pacifica contro il dominio britannico che attraversò tutto il paese..
In Asia, nel Maghreb e nel resto dell’Africa, queste prime correnti femministe nate dalle lotte nazionalistiche sono caratterizzate dall’universalismo laico. Le donne sono invitate a popolare le università, le imprese, le istituzioni e le organizzazioni politiche. Ma un dominio resta ad oggi quasi del tutto impensato: la famiglia. Secondo Margot Badran, ricercatrice al Centro per la comprensione tra musulmani e cristiani del principe saudita Al-Walid Ben Talal presso l’università americana di Georgetown, nei paesi musulmani “sono le femministe islamiche, alla fine del XX secolo, a far proprio questo compito“8*. Nata negli anni ’80 e forgiatasi con l’esperienza iraniana, questa forma religiosa di femminismo rimane tuttora molto controversa. I più strenui difensori della laicità denunciano una manipolazione della lotta delle donne a vantaggio dell’islam politico fondamentalista. Pertanto, spiega Badran, ” il femminismo islamico è al centro di una trasformazione che cerca di farsi strada nell’islam. Trasformazione, e non riforma, perchè non si tratta di emendare le idee e i costumi patriarcali che vi si sono infiltrati, quanto piuttosto di mettersi alla ricerca del messaggio profondo del Corano di uguaglianza tra i generi e di giustizia sociale (…) e di adeguarvi, con un radicale capovolgimento, ciò che così a lungo abbiamo considerato Islam“9*.
Militanza laica, militanza islamica
Nato dalle conquiste delle lotte femministe precedenti, questo movimento si è dapprima fatto strada intorno agli anni ’80, quando le donne del ceto medio hanno avuto accesso agli studi superiori cominciando a lasciare il focolare per il lavoro: apparvero allora le prime riflessioni sulla divisione del ruolo del capo famiglia. Allo stesso tempo, il concetto di genere, forgiato negli Stati Uniti, è stato ripreso dalle teologhe musulmane per interrogare i testi sacri.
Nel 2005 le “militanti letterate”, come le chiama Badran, hanno affermato ancor più l’indipendenza del loro pensiero cercando di separare la sfera propria del sacro dalle pratiche e dal diritto musulmani, mostrando che si tratta di costruzioni umane storicamente determinate sulle quali è possibile agire. Badran constata, all’interno della cultura musulmana, una convergenza tra il femminismo laico e quello islamico, che si esplica, prima di tutto, negli obiettivi comuni: liberare l’Islam dalla dominazione maschile e realizzare l’aspirazione ad un islam egualitario, in particolare all’interno della famiglia”10*. In Marocco, senza questa alleanza, la riforma del codice di famiglia (mudawana) sarebbe stata impossibile: Questa riforma è il frutto di vent’anni di dibattito tra potere politico, femministe liberali e femministe islamiche, cui Mohammed IV ha messo fine nel 2003 con un arbitrato che teneva conto delle rivendicazioni delle une e delle altre.11* L’avanzata dei diritti delle donne nella sfera familiare è stata ottenuta grazie alla convergenza di una militanza femminista di lunga data, appannaggio di associazioni laiche, degli apporti delle femministe islamiche e, infine, della volontà del giovane re di impadronirsi di queste questioni per modernizzare la società marocchina e ostacolare la radicalizzazione dell’islam, in particolare dopo gli attentati del 16 maggio 2003 a Casablanca.
Lo stesso processo potrebbe innescarsi riguardo l’aborto. “E’ un tema di cui si comincia a discutere pubblicamente, precisa la ricercatrice Souad Eddouada, nel nome della dignità della donna difesa dall’islam, l’aborto potrebbe essere considerato in certi cas come l’unica soluzione, e ciò potrebbe aprire alla sua legalizzazione“.
Anche nella penisola arabica un’alleanza tra laiche e religiose ha permesso l’estensione del diritto di voto alle donne in Bahrein, nel 2002, e in Kuwait nel 2005.
1*Genre et marché de l’emploi, rapporto pubblicato nel gennaio 2008 dal Ministero rwandese della funzione pubblica e del lavoro
2*Carol Mann, Malalai Joya et le courage de la vérité, Sisyphe.org, 18 novembre 2007.
3*Glyn Strong, Malalai Joya: courage under fire, The Telegraph, Calcutta, 29 settembre 2007.
4*Human Rights Watch, The ten-dollar talib and women’s rights, 13 giugno 2010, www.hrw.org
5*Urvashi Butalia ha fondato, insieme con Ritu Meinon, Kali for Women, la casa editrice pionera delle tematiche femministe e di genere in India, nel 1984. La scelta editoriale è stata fin dall’inizio varia e differenziata, non limitandosi a pubblicazioni accademiche ma includendo anche testi schiettamente militanti e romanzi, iscrivendosi nel grande alveo dei Post-Colonial Studies. Tra i testi di maggior successo e rilevanza Recasting Women, Essays in Indian Colonial History (1989) e Sharir Ki Jaankaari (The knowledge of the body), una raccolta di racconti di 75 donne di diversi villaggi venduta a prezzi molto popolari per facilitarne la diffusione nei villaggi stessi. Attualmente la casa editrice non esiste più, ma le due fondatrici ne guidano altre due, nel solco del femminismo anti-colonialista che ha caratterizzato Kali for Women, Zubaan e Women Unlimited – per le curiose: www.womenunlimited.net e www.zubaanbooks.com (nota nostra)
6*Stephanie Tawa Lama-Rewal, Les femmes en Inde, Rayonnement du CNRS, n.47, Parigi, marzo 2008
7*Martine van Woerkens, Nous ne sommes pas des fleurs. Deux siècles de combats féministes en Inde, Albin Michel, Parigi 2010, p. 95.
8*Margot Badran, Où en est le féminisme islamique?, in Critique internationale, n.46, “Le féminisme islamique aujourd’hui”, Presses de sciences Po, Parigi, gennaio-marzo 2010, p. 29.
9*Ibid., p.25
10*Ibid., p.43
11*Souad Eddouada e Renata Pepicelli, “Maroc, vers un “féminisme islamique d’Etat“, in Critique Internationale, n. 46, cit., p.87