A conclusione della settimana internazionalista, domani a Milano si svolgerà la manifestazione nazionale in solidarietà con il popolo basco. Cogliamo questa occasione per riportare all’attenzione di tutte e tutti gli innumerevoli casi di torture perpetrate ai danni dei detenuti e delle detenute politiche basche nelle carceri spagnole e francesi. Sono circa un centinaio all’anno e la maggior parte di essi non vengono denunciati per la paura dei prigionieri e delle prigioniere di rivivere quelle terribili esperienze. Dei circa 750 detenuti un numero significativo è formato da donne; senza sminuire affatto la gravità delle torture inflitte a tutti, uomini e donne, va appunto considerata la drammaticità particolare delle esperienze delle donne, maggiormente esposte ad abusi e violenze sessuali. La costante tensione in cui vivono le detenute basche e la perenne minaccia di stupro a cui sono sottoposte, determinano per loro condizioni terribili ancor più all’interno del sistema carcerario. Tutti i tipi di vessazione e violenza sessuale sono utilizzati per degradare psicologicamente la persona, umiliarla, distruggere la sua integrità mentale e fisica e colpire la sua identità sessuale con conseguenze gravissime per la sua vita affettiva e non solo.
Vi proponiamo la testimonianza di una ragazza basca, Amaia Urizar De Paz, arrestata e torturata nelle carceri spagnole.
Mi hanno arrestata il 29 ottobre, venerdì, alle tre del mattino, mentre ero a casa dei miei genitori. Al momento dell’arresto, i miei genitori erano in casa. Hanno colpito la porta, gridando che era la Guardia Civil e che aprissimo. Mi sono innervosita molto e mi è preso il panico, così sono corsa nella camera dei miei in cerca di protezione. È stata mia madre ad aprire ed immediatamente numerosi agenti della Guardia Civil si sono precipitati all’interno, armi alla mano, puntandole ovunque e chiedendo di me. In quel momento mi sono resa conto che non c’era scampo ed il mondo mi è crollato addosso. Mi sono presentata davanti a loro e ho detto che Amaia ero io. Mi hanno costretta a sedermi su una sedia, nell’ingresso, una donna della Guardia Civil mi ha letto l’ordine di arresto, alla presenza dei miei genitori, mentre mi diceva che mi si arrestava per la mia collaborazione con ETA. All’inizio hanno cominciato a gridare, ma poco alla volta si sono tranquillizzati; io avevo paura per i miei genitori, perché loro immaginavano cosa mi avrebbero fatto durante quei cinque giorni…e in quel momento mi è venuta la nausea, credo per la tensione di quella situazione. Mi hanno detto che mi portavano nella mia stanza per cominciare la perquisizione; una volta lì, hanno smontato tutti gli armadi, tirato fuori tutti i vestiti, spostato tutti i libri. Nel frattempo, raccoglievano le cose che credevano importanti: lettere di prigioniere e prigionieri politici, quaderni di scuola, fotografie di amici e parenti, cartine stradali, agende telefoniche. A perquisire erano sei Guardie Civil, gli altri erano sulla porta, con i miei genitori e ce n’erano anche sulle scale del condominio. Hanno lasciato la mia stanza a soqquadro, tutto sparso in giro; quando hanno finito, sono entrati nella stanza di mio fratello maggiore, che si trova in prigione, e l’hanno guardata superficialmente. Ho detto loro che non avevano il diritto di perquisire la sua stanza, perché era di mio fratello e lì c’erano solo cose sue, che non era un ambiente comune dell’appartamento; da lì, in quel momento non hanno portato via niente. Poi, mi hanno portata in sala; mentre la perquisivano tutta, mi era impossibile controllare cosa prendevano, dato che i sei agenti perquisivano ovunque e spostavano tutto insieme. Ero nervosa, completamente terrorizzata, perché mi impressionava molto vedere tutti quegli agenti della Guardia Civil incappucciati ed armati, in casa dei miei genitori. Di tanto in tanto guardavo i miei, anche solo perché mi vedessero tranquilla e, contemporaneamente, per accertarmi che li trattassero correttamente. Una volta finito in sala, mi hanno portata nella camera dei miei genitori, ho detto loro lo stesso che quando mi avevano portata in quella di mio fratello ma mi sono resa conto che, quando erano entrati, mi avevano visto uscire da lì; hanno perquisito tutta la stanza, ogni angolo, ogni armadio e si sono portati via alcune carte. Mentre perquisivano l’abitazione, ho avuto una leggera nausea e la donna della Guardia Civil della quale ho accennato prima, mi ha portata in cucina affinché prendessi un po’ di zucchero. Quando sono stata meglio, mi hanno portata nella mia stanza, mi hanno obbligata a vestirmi ed a prendere una borsa con del vestiario (mutande, magliette, calzoni e qualche tampax). Ero molto nervosa e non sapevo bene cosa prendere, non volevo uscire di casa, non volevo restare sola con loro…Mi hanno portata alla porta e mi hanno messo delle manette di metallo dietro la schiena. Mentre mi dicevano di stare tranquilla, mi hanno fatto scendere le scale, prima di arrivare al portone mi hanno ordinato di abbassare la testa e mentre mi dicevano di non provare nemmeno a guardare, mi hanno lasciata nelle mani di altri due uomini. Mi hanno afferrata per le braccia, mi hanno detto “adesso zitta”, mi hanno portato fuori e mi hanno infilata in una macchina scura. Ho sentito le grida di mia madre che mi faceva coraggio, ero terrorizzata, mi trovavo nelle loro mani e non potevo fare niente per uscire da quella situazione; non potevo credere che fosse vero, doveva essere un incubo…Nell’automobile stavo in mezzo a due uomini, avevo la testa china; appena salita in macchina, quello alla mia destra mi ha levato le manette e me le ha rimesse sul davanti. Ha cominciato a parlarmi: “sei stata presa, Amallita, e di questo devi renderti conto; per noi è lo stesso, perché sappiamo tutto, ma sappi che devi raccontarcelo tu e hai due modi per farlo: con le buone o con le cattive e credo che non ci sia bisogno di spiegartelo, no? Sicché, adesso, pensaci, perché ti darò l’opportunità di cominciare a parlare adesso, altrimenti dormo per tutto il viaggio e, quando arriveremo, sarò riposato e allora, se non avrai detto niente, saranno cazzi tuoi…” Stavo tremando e mi è venuta la nausea, gli ho chiesto dello zucchero, perché sapevo che la donna che era stata in casa gliene aveva dato un paio di bustine. I quattro agenti nella macchina hanno cominciato a ridere e uno di loro mi ha mostrato il pacchettino dello zucchero, mi ha detto che aveva aperto il finestrino e che l’aveva buttato.
Mi ripetevano continuamente le stesse cose, che cominciassi a parlare, altrimenti lui stesso avrebbe deciso di iniziare a picchiarmi, che sarei rimasta nelle loro mani per cinque giorni e che ormai non si tornava indietro. Ero perduta, non sapevo cosa volessero sentire e ho deciso di restare in silenzio, perché pensavo che mi avrebbero picchiata comunque, qualsiasi decisione avessi preso.
Dicevo loro che io non sapevo niente e loro mi dicevano che, così, cominciavo male, quando mi si rivolgeva mi chiamava Amallita, come fanno le persone a me vicine; questo mi faceva male, perché mi parlava con confidenza ed il fatto che facesse finta di essere una persona a me vicina ed in confidenza, mi disorientava. Siccome il viaggio è stato lungo e poiché la persona che era stata arrestata prima di me era stata trasferita a Madrid, ho pensato che ci avrebbero portato anche me e così è stato. Quando la macchina si è fermata per la seconda volta, ero convinta che fossimo a Madrid; in precedenza, si erano fermati a una stazione di servizio, lo so per l’odore che c’era. Appena arrivati alla caserma della Guardia Civil a Madrid e prima di farmi scendere dalla macchina, mi hanno coperto gli occhi con una benda. Quello che durante il tragitto mi parlava, mi ha detto “adesso siamo arrivati, puttana, e non ci hai detto niente”, mentre mi lasciava nelle mani di altri Guardia Civil. Questi, fra loro c’era una donna, mi hanno portata in un bagno che si trovava in fondo a delle scale, mi hanno detto di levarmi i vestiti e mi hanno detto di mettermi sotto una doccia; mi hanno bagnata completamente, con acqua fredda, poi mi hanno restituito il tanga ed il reggiseno, ordinandomi di mettermeli. Mi hanno tolto gli orecchini, i braccialetti, gli anelli…Mi hanno di nuovo coperto gli occhi e mi hanno messo in una cella, a quel punto, la donna mi ha spiegato come dovevo comportarmi ogni volta che avessero bussato alla porta. Sentendo la sua voce mi sono resa conto che era la stessa donna presente alla perquisizione ed al mio arresto. Dovevo mettermi contro la parete opposta alla porta, con le gambe leggermente piegate e le braccia dietro la schiena; mi ha detto questo e ha chiuso la porta. La cella aveva più o meno le dimensioni di questa, qui a Soto, era dipinta di bianco, c’era una branda con due coperte sudice ed una lampada fissata alla parete, all’interno di una reticella metallica. La porta aveva una piccola finestra che loro aprivano e chiudevano costantemente. Ero tranquilla, terrorizzata per ciò che sarebbe accaduto nei giorni seguenti, ma tranquilla; in testa continuavo ad avere il momento dell’arresto, la preoccupazione per come stavano i miei genitori.
Nel giro di una decina di minuti, da quando mi avevano messo nella cella, hanno bussato due volte ed io ho fatto ciò che mi avevano ordinato, mi sono messa con le spalle alla porta, contro il muro, per la paura mi tremava tutto il corpo. Appena aperta la porta, ho sentito la voce del Guardia Civil che era stato in macchina fino a Madrid che diceva ad un altro, che chiamava Garmendia, di fare quel che doveva fare; mi è saltato addosso, mi ha buttato sulla branda e mi ha afferrato molto forte per le braccia. Ho cominciato a gridare di lasciarmi e loro mi urlavano “taci, puttana!”; allora li ho visti, erano incappucciati e quello che era stato nella macchina aveva i pantaloni e le mutande abbassati e veniva verso di me, dicendomi, sghignazzando, “ci scopiamo la fidanzata del capo”. Mi è saltato addosso, sfregando il suo corpo sul mio, percepivo il suo pene fra le mie gambe, piangevo e lottavo per levarmelo di dosso, mentre mi gridavano che mi avrebbero violentata. La porta della cella era aperta e c’erano non so quanti altri Guardia Civil che gridavano, sghignazzando, che loro sarebbero stati i prossimi; io gridavo, stavo piangendo, ma a loro non importava. Quello che mi stava sopra mi palpava dappertutto e mi premeva sempre più forte fra le gambe, mentre mi gridava “Cosa ti dice il tuo ragazzo mentre ti scopa? Gora ETA (Viva ETA, in euskara, N.d.T.)? Certo che ti stai arrapando, puttana, ti scoperemo tutti e gli farai schifo, perché ce la godremo un mondo, con te…!”. Quelli che stavano sulla porta reclamavano il loro turno e fra le risate mi dicevano “ti scoperà persino la tipa che sta qui, con noi”. Hanno continuato così per parecchio, mi sentivo perduta, perché quello era solo l’inizio ed avevano cinque giorni per comportarsi così con me; ero completamente terrorizzata, ero sola nelle loro mani…Quando se ne sono andati avevo tutto il corpo indolenzito, mi sentivo spossata e piangevo continuamente, ero completamente bagnata e buttata in un angolo, con una coperta addosso.
Non so quanto tempo è trascorso prima che bussassero di nuovo alla porta della cella; stavo tremando, completamente terrorizzata, non avevo nemmeno la forza di alzarmi e hanno cominciato a gridarmi “Alzati, troia, che adesso è la volta buona, mettiti in posizione!”” Quando ho fatto quello che mi ordinavano, la porta si è aperta e, ridendo, mi hanno coperto gli occhi; mi hanno tirata fuori dalla cella, ammanettata e a testa china, abbiamo sceso delle scale, ne abbiamo salite altre, abbiamo svoltato qua e là e mi hanno messa in una stanza, sistemandomi in un angolo, contro la parete. Un uomo, la cui voce non avevo ancora sentito, ha iniziato a parlarmi, mi ha detto che sapeva che, fino a quel momento, non avevo detto nulla di interessante e che da lì in avanti, per me, sarebbe iniziato l’inferno, che avevo due opzioni e che, a quanto pareva, avevo scelto la più dura, che tutto ciò che mi avrebbero fatto a partire da quel momento sarebbe stata colpa mia. Intanto, mi chiedeva se volevo cambiare idea. Io non riuscivo a smettere di piangere, tremavo e gli ho detto che non sapevo niente, che non sapevo per quale motivo mi avessero arrestata; allora, quell’uomo, mi ha tetto “tu hai scelto” e che se ne andava, lasciandomi nelle mani dei suoi uomini, che avrebbe voluto vedere se, quando sarebbe tornato, avrei avuto il coraggio di continuare a dire lo stesso. Subito, un altro mi ha afferrato per il braccio e mi ha portata in un’altra stanza, tutta rivestita di piastrelle; appena entrata lì, mi hanno tolto la benda e ho potuto vedere che c’erano cinque uomini, tutti incappucciati. La luce era bianca e mi provocava dolore, mi hanno fatta sedere su una sedia e mi hanno indicato un pacco di sacchi per la spazzatura, mentre mi chiedevano se sapessi a cosa servivano; ho detto di sì e mi hanno obbligata a spiegare per cosa li utilizzavano, ridevano molto, fino a quando uno ha colpito la sedia con la mano. Mi hanno detto che avevo perso tutte le possibilità e che, da quel momento in poi, avrei conosciuto ciò che loro chiamavano tortura; mi gridavano i nomi di amici e conoscenti e volevano che dicessi loro come mai li conoscevo e che lavoro facevano. Dicevo loro che molti li conoscevo, ma che non avevano alcuna relazione con l’organizzazione, almeno non che io sapessi; in quei momenti gridavano e mi insultavano, puttana, troia, bugiarda e mi mettevano un sacchetto di plastica sulla testa, stringendolo da dietro. Al principio, sentivo caldo, avevo il viso fradicio di sudore cercavo di muovermi quando il sacchetto mi tappava la bocca, non potevo respirare e cominciavo ad avere la nausea; riuscivo a rompere il sacchetto con i denti e, allora, quando cominciavo di nuovo a respirare, mi colpivano con degli schiaffi sulle orecchie. La testa mi girava, quasi non li sentivo, ero completamente persa, ma mi gridavano di nuovo dei nomi e, siccome le mie risposte erano le stesse, mi mettevano un nuovo sacchetto sulla testa.
Non so quante volte me l’hanno messo, in questa prima sessione di tortura; una volta sono caduta, con la sedia e tutto, mezza svenuta e, fra le risate, mi dicevano “alzati, puttana, è tutto qui quello che reggi?” e, intanto, tiravano calci allo schienale della sedia… Mi obbligavano a bere acqua continuamente, dicendomi che erano bottiglie che avevano aperto apposta per me. Quando vedevano che stavo un po’ meglio, cominciavano di nuovo con l’interrogatorio, gridandomi ancora ed ancora nomi su nomi, colpendomi con la mano aperta sulle orecchie ed infilandomi sulla testa un sacchetto dopo l’altro. Improvvisamente hanno smesso, mi hanno tolto le manette e fatta alzare, mentre mi bendavano gli occhi; ho sentito la porta aprirsi ed afferrandomi per le braccia mi hanno riportata in cella.
Mentre ero in cella, siccome avevo molto freddo, mi coprivo con una delle coperte; ero in tanga e reggiseno, sentivo dei colpi contro la parete e contro la porta e, tremando, mi mettevo nella posizione che mi avevano ordinato, pensando che sarebbero entrati, ma non entravano e, quando tornavo a sedermi, cominciavano a bussare di nuovo. Ero stanca, spaventata, temevo ciò mi avrebbero fatto, mi veniva da vomitare, così, una delle volte che hanno aperto lo spioncino, ne ho approfittato per chiedere di andare al bagno; allora, uno mi ha risposto: “se vomiti, ti fotti, e appena lo fai, ti rimangi tutto”. Poco dopo, hanno bussato di nuovo, mi sono messa in posizione ed è entrata la donna, che mi ha dato una bottiglietta d’acqua, affinché bevessi e ha richiuso la porta. Non so quanto tempo sia passato prima che tornassero a prendermi, ma bussavano continuamente alla porta, lo spioncino era aperto, in modo che non potessi tranquillizzarmi. Mi hanno tirata fuori dalla cella e portata alla sala degli interrogatori; lì c’era il Guardia Civil che era stato in macchina durante il viaggio a Madrid e ha cominciato a parlarmi. Ero molto nervosa, perché non potevo dimenticare ciò che mi aveva fatto appena arrivati, la sua voce, il suo odore… tutto mi ricordava ciò che era successo. Mi hanno messa in un angolo, faccia al muro, mi obbligavano a tenere le gambe leggermente piegate; sentivo una grande stanchezza, appena mi veniva un capogiro, cadevo all’indietro e, in quel momento, quello che stava dietro di me mi spingeva contro il muro. Le domande, me le faceva quello che stava in macchina, mi diceva che fino a quel momento non avevo detto niente e che dovevo sapere che, oltre al sacchetto, avevano altri metodi per farmi parlare, che se dicevo ciò che loro volevano, non mi avrebbero toccata, che dipendeva da me, ma che non mi avrebbe dato nessun’altra possibilità. Mi dicevano che quello che avevano arrestato prima di me non si era comportato così, che aveva parlato e che per quello io ero lì, perché mi aveva venduta e che io dovevo comportarmi allo stesso modo, per sopportare bene quei giorni, che tutti lo facevano ma che, affinché la gente, fuori, non lo sapesse, denunciavano torture, che dovevo solo testimoniare tutto ciò che mi avrebbero detto, mi dicevano di essere furba, oppure da lì, non sarei uscita in piedi; che non dormivo da molto tempo e che non avevo ottenuto niente, che dovevo cominciare ad accettare la situazione. Parlavano spesso del mio compagno, chiedendo se sapevo che andava con altre mentre io stavo ad aspettarlo come una scema… mi facevano i nomi di amiche, dicendomi che avevano avuto relazioni sessuali con il mio compagno, erano molto insistenti su questo tema, volevano farmi male. In quell’interrogatorio mi dicevano solo cose del genere, dando la colpa del fatto che mi trovassi lì al mio compagno; sono andati avanti così per molto tempo, io non riuscivo più a stare in quella posizione, tremavo, piangevo e sudavo. Mi dicevano che il mio corpo piaceva loro, non so in quanti fossero, forse in tre, dicevano che il tanga mi stava molto bene, che sarei stata anche meglio senza reggiseno; ho cominciato di nuovo a piangere, perché temevo che mi facessero ancora lo stesso che mi avevano già fatto o che sarebbero andati oltre. Cercavo di stare dritta, ma non mi lasciavano e mi obbligavano a restare nella stessa posizione che mi avevano ordinato; mi hanno portata di nuovo in cella. Le pareti della cella erano dipinte con pittura “granulare” e non so perché, ma ci vedevo delle figure e queste si muovevano; avevo paura di uscirne pazza, la cella si ingrandiva e si rimpiccioliva, la porta si avvicinava e si allontanava, anche il pavimento si muoveva… Non sapevo (non so) se era la mia testa o se era perché mi avevano obbligata a bere e, forse, mi avevano dato qualcosa nell’acqua… stavo molto male… sentivo che la testa se ne andava e, se chiudevo gli occhi, mi veniva la nausea. Hanno aperto di nuovo lo spioncino e uno che portava un cappuccio bianco ha cominciato a gridarmi che non potevo guardare da quella parte e che se l’avessi fatto ancora mi avrebbe pestata; mi ha detto che sarebbe entrato ed io sono andata al mio posto, pensavo che mi avrebbe picchiata e non riuscivo a smettere di piangere. Mi ha coperto gli occhi e mi hanno portata di nuovo nella stanza con le piastrelle bianche; entrando ho sentito rumore di acqua, come se stessero riempiendo qualcosa e ridevano, sussurrandomi all’orecchio “Amallita, Amallita”. Non so se è stato per la paura o per quale altra ragione, ma in quel momento mi sono orinata addosso; alcuni hanno cominciato a ridere di me, mentre altri si sono arrabbiati e mi hanno detto che avrei dovuto pulire tutta la stanza con la lingua. Lo scroscio d’acqua è cessato e mi hanno costretta a fare un paio di passi in avanti ed a mettermi in ginocchio, mi hanno tolto la benda, mi hanno stretto le manette, ero ammanettata dietro la schiena. Davanti a me c’era la vasca da bagno… mi sono innervosita e tentavo di arretrare, ma non c’era via di scampo, ero circondata; sapevo già cosa mi avrebbero fatto, uno di loro mi gridava nomi che collegava a diversi “gruppi”, volevano solo che ammettessi ciò che dicevano. Io ripetevo che non sapevo niente, che davvero non lo sapevo, che erano solo amici o gente che conoscevo e che quello che mi stavano dicendo non era vero o che, almeno, io non lo sapevo. Allora, in due, uno afferrandomi per il corpo, l’altro tirandomi per i capelli, mi mettevano la testa nella vasca da bagno, molto violentemente, in modo che con il petto urtavo il bordo: sentivo che affogavo, tentavo di tirarmi indietro con le gambe, ma non ci riuscivo, muovevo la testa con tutte le mie forze, per tirarla fuori dall’acqua, ma era impossibile finché loro non me lo permettevano. Ho bevuto troppa acqua, sia attraverso la bocca, sia attraverso il naso, mi girava la testa, ero senza forze, ma a loro non importava e continuavano a gridarmi nomi e ancora nomi, che dovevo ammetterlo; il pianto non mi lasciava dire niente e continuavano a mettermi la testa nell’acqua.
Ormai non si aspettavano nessuna risposta, dato che non lasciavano tempo sufficiente fra un’immersione e l’altra, ne lasciavano solo per respirare un momento; non ne potevo più, in quei momenti pensavo che non sarei uscita viva da lì, che non potevo fare niente e ho lasciato che il mio corpo diventasse come quello di una marionetta. Non opponevo alcuna resistenza a quello che mi stavano facendo, volevo solo che finisse, se il loro obiettivo era ammazzarmi, che lo facessero al più presto… Ma controllavano molto bene quello che facevano, perché mi davano giusto il tempo indispensabile per respirare, non volevano nessun problema, il che, in quei momenti, mi tranquillizzava; per uscire da lì, ho ammesso quello che volevano, ho detto di sì, che avrei ammesso tutto e mi hanno riportata in cella. Non avevo nemmeno la forza di camminare, ero distrutta e mi ci hanno trascinata; mi hanno lasciata lì parecchio tempo, avvolta in una coperta, perché avevo freddo ed ero bagnata, mi sono messa sulla branda, in un angolo, piangendo.
All’improvviso, hanno di nuovo bussato alla porta e mi sono messa in posizione, nervosa: ma erano calmi, mi hanno bendato gli occhi e mi hanno detto che mi avrebbero portata nella sala degli interrogatori, per tranquillizzarmi; quando siamo arrivati in quella
sala, mi hanno messa contro una parete, in un angolo, con le mani libere (ero quasi sempre ammanettata). Allora, ho sentito la voce del Guardia Civil della macchina, era calmo e mi ha chiesto se volevo sedere, ma ho detto di no, perché non volevo che pensasse che gli davo confidenza, perché non volevo che pensassero che facevo “differenze” fra loro. Mi diceva che ero molto furba, un po’ testarda, ma che alla fine, anche se a legnate, avrei imparato a comportarmi bene, che i suoi uomini gli avevano detto che c’erano buone notizie per lui e che questo significava che avrei ammesso tutto, dunque, che cominciassi a parlare. Sono rimasta in silenzio, tremando; allora mi ha avvertito che mi avrebbe detto ciò che dovevo ripetere di sopra e che se sul verbale non ci fossero state le cose esattamente come lui diceva, sapevo già cosa mi aspettava al ritorno e mi diceva che dovevo impararle bene. Poi, hanno cominciato a leggermi le domande che mi avrebbero fatto durante la deposizione e ciò che dovevo rispondere; sono andati avanti a lungo, fino a che non ho imparato a memoria le risposte. Mi hanno dato i pantaloni ed il maglione, affinché me li mettessi ed un asciugamano per asciugarmi la testa; mi hanno detto che durante la deposizione loro sarebbero stati ad ascoltare e che se le mie risposte non li avessero soddisfatti, sapevo già cosa mi aspettava. Mi hanno anche detto che avrei incontrato il medico legale, ma che non potevo dire niente delle torture, perché altrimenti sì che ne avrei subite e di molto più dure. Mi hanno di nuovo bendato gli occhi e mi hanno portata “di sopra”, in una sala piccola; c’erano tre persone, una scriveva ad un computer, un altro mi faceva le domande e, dietro, c’era la persona che svolgeva il ruolo di avvocato d’ufficio. Appena entrata, uno mi ha letto i miei diritti, mi ha detto che la persona seduta alle mie spalle era l’avvocato d’ufficio e che non potevo né guardarlo, né parlare con lui; mi sono voltata e ho visto che era una donna, seduta in un angolo; ho visto che c’era uno specchio e, appena ho guardato, ho sentito due colpi da dietro lo specchio. Sapevo che dietro lo specchio c’erano i miei torturatori, che ascoltavano la mia deposizione; quello che mi ha letto i diritti, aveva in mano alcuni fogli, sui quali c’erano le domande e le risposte. Ero completamente terrorizzata, avevo molta paura che se non avessi detto quello che mi avevano ordinato, mi avrebbero torturata di nuovo; sapevo già che, anche se avessi detto quello che volevano, non mi avrebbero lasciata in pace, ma la paura ha avuto il sopravvento e ho tentato di rispondere alle domande. Ero molto nervosa e non volevo denunciare i miei amici e conoscenti, tanto più che erano tutte menzogne.
Esitavo nel rispondere a quasi tutte le domande, non potevo sopportare il pensiero che quella gente sarebbe stata torturata come me, e cominciavo a piangere; in quei momenti, sentivo di nuovo picchiare dall’altra parte dello specchio: i due uomini nella sala fingevano di non sentire i colpi e mi offrivano acqua e sigarette, ma io non accettavo. Quando hanno finito con le domande, hanno stampato la deposizione e me l’hanno data, affinché la leggessi e la firmassi; c’era tutto, anche cose che mi ero dimenticata di dire, allora mi sono resa conto che avevano la deposizione preparata in anticipo, perché c’era ciò che loro volevano che io dicessi, perché c’erano cose che non avevo detto in quei momenti. Ho firmato il verbale.
Mi hanno detto di alzarmi e mi hanno di nuovo coperto gli occhi, mentre mi dicevano che mi avrebbero portata dal medico legale; mi hanno portata in un’altra stanza, dove, appena entrata, mi hanno tolto la benda. Quella stanza era molto piccola, appeso al muro c’era un armadietto con una croce rossa e c’era anche un tavolo; un uomo, mi ha mostrato un attimo il tesserino e mi sembrava diffidente. La prima cosa che mi ha chiesto, è stata se avessi subito maltrattamenti ed io, fra i singhiozzi, gli ho risposto di no, mi ha chiesto se avessi le mestruazioni, se sentissi qualche dolore e gli ho detto di guardarmi gli occhi, perché avevo quello sinistro gonfio e rosso; mi ha dato un’occhiata e mi ha detto che non era niente, che di sicuro mi si era infettato mentre mi facevano la vasca da bagno e mi ha chiesto se volessi un collirio. Non potevo crederci, mi aveva chiesto se avessi subito maltrattamenti e poi, lui stesso, mi ha detto della vasca da bagno… non ho accettato il collirio, volevo continuare ad avere l’occhio arrossato quando mi
avrebbero messo a disposizione del magistrato. Mi ha misurato la pressione perché i Guardia Civil gli avevano detto che avevo dei cali degli zuccheri, mi ha chiesto che giorno fosse, dove eravamo e gli ho risposto che non lo sapevo; a parte l’acqua, quando mi ha chiesto se mi avessero dato da mangiare e da bere, gli ho risposto di no. Appena finito, un Guardia Civil mi ha nuovamente bendata e, mentre mi riportava in cella, mi ha detto che avevo fatto molto bene, sia la deposizione, sia la visita del medico legale.
Mi hanno rimessa in cella, mi hanno detto di approfittarne per dormire un po’, ma pochi minuti dopo sono tornati a bussare. Mi sono messa al mio posto e sono entrati due agenti incappucciati, mi hanno detto di mettermi sotto la luce, che mi avrebbero messo del collirio, mostrandomi un grosso flacone; ho detto che non volevo che mi mettessero niente nell’occhio, ma uno di loro mi ha risposto che non gli importava quello che volevo, che me lo avrebbero messo comunque, che decidessi se l’avrebbero fatto con le buone o con le cattive. Non so cosa fosse quel liquido, ma me ne hanno messo un po’ in ogni occhio e se ne sono andati. Sono rimasta parecchio tempo in cella, mentre loro accendevano e spegnevano la luce e bussavano; non riuscivo a tranquillizzarmi e mi venivano dei leggeri capogiri; ma non volevo che entrassero di nuovo e sono rimasta seduta per terra, con la testa fra le gambe, fino a quando sono tornati a prendermi. E mi hanno portata un’altra volta, bendata, alla sala degli interrogatori; mi hanno messa al solito posto e uno di loro ha cominciato a parlarmi, mi ha detto che durante la deposizione mi ero comportata bene, ma se mi fossi azzardata un’altra volta a guardare l’avvocato d’ufficio, sapevo cosa mi sarebbe capitato. Anche se all’inizio mi parlava con un tono tranquillo, diventava sempre più nervoso, mi ha detto che mi avrebbero mostrato alcune fotografie e che avrei dovuto dire nome e cognome delle persone ritratte, gli indirizzi dei loro posti di lavoro e di dove abitavano e, siccome ci sarebbe voluto del tempo, mi hanno obbligata a sedermi su una sedia. Avevo le braccia legate allo schienale e mi hanno legato le caviglie alle gambe della sedia, con una specie di manette di corda; in quella posizione, mi sentivo ancora più debole, perché non avevo nessuna possibilità di muovermi e questo mi spaventava; uno di loro mi ha tolto la benda, ero contro la parete e, in quel momento, uno che era incappucciato mi ha messo davanti un foglio con una fotografia, non so quante fotografie mi hanno mostrato… ma quando rispondevo qualcosa che non era di loro gradimento, mi minacciavano con il sacchetto e con la vasca da bagno e, a volte, mi colpivano sulle orecchie con la mano aperta, lasciandomi mezza svenuta. Ho detto loro che quasi tutta la gente delle fotografie era gente che conoscevo dal bar, ma che non sapevo né che luoghi frequentasse, né dove vivesse; hanno continuato a mostrarmi fotografie su fotografie, fino a quando si sono stancati e, allora, quello che faceva la parte del capo, ha cominciato a gridarmi “Puttana, troia, se in questi giorni non hai imparato niente, imparerai!” e cose del genere. Mi ha detto che non gli costava niente tirarmi due colpi e mi ha rimesso la benda; mi ha chiesto se quello che avevo detto della gente nelle fotografie fosse vero e se avessi detto tutto ciò che sapevo; ho risposto di sì, che non sapevo nient’altro su quelle persone. Ero completamente terrorizzata, piangevo… mi ha gridato di non piangere, che lui sapeva tutto e che non gli avevo ancora detto nemmeno la metà e che per me sarebbe stato molto peggio se lo avesse detto lui, al mio posto, che il gioco era finito; mi ha alzato un poco la benda, mi ha mostrato una pistola, era di metallo. Ho cercato di voltarmi, ero terrorizzata, pensavo che mi mia avrebbero sparato… ridendo, mi hanno chiesto se volevo prenderla in mano, volevano vedere se “avevo le palle” per sparare loro, come mio fratello e il mio compagno; io dicevo di no, fra i singhiozzi, tremando e loro, ridendo, mi dicevano cose come “puttana traditrice”. Allora, ho sentito il metallo fra le gambe e un Guardia Civil mi ha sussurrato di non muovermi, io piangevo e ho cominciato ad urlare come una pazza, mentre facevo forza per chiudere le gambe, ma non potevo, perché avevo le caviglie legate alle gambe della sedia… Mi ha messo la pistola fra le gambe e, con la mano, ha scostato il tanga, io gli gridavo di lasciarmi in pace, ma si è messo a colpirmi sulle orecchie, con la mano aperta, mentre mi gridava di stare ferma o gli sarebbe partito un colpo, che la pistola era carica. Sentivo le risate degli altri, che dicevano cose come “troia, vacca, puttana, ti piacerà…”. Mi ha introdotto la canna della pistola nella vagina, gridandomi continuamente nell’orecchio “Cosa ti dice (riferendosi al mio compagno) quando ti scopa? Gora ETA?”, non riuscivo a smettere di piangere e non avevo più la forza di gridare. Si è messo ad introdurmi e togliere la pistola con maggiore violenza e mi faceva male, mentre quello che mi stava violentando mi sussurrava “ti piace, puttana”, “non avrai un figlio di puttana, perché ti tirerò due colpi”; il suo odore mi invadeva, mi faceva schifo, non so se quell’odore mi uscirà mai dalla mente…Tutti ridevano, uno mi teneva per il collo, mentre l’altro continuava a mettermi e togliere dalla vagina la canna della pistola e mi palpava il petto in maniera molto brusca, strizzandomi il seno. Percepivo dentro di me il freddo del metallo, mi ripetevano che la pistola era carica e che se avesse sparato sarebbe stata colpa mia… Non so quanto tempo è durata la violenza, ma sono ammutolita, ero persa; in quella stanza, stavano violando il mio corpo, ma per un istante sono riuscita a fuggire da lì, fra i singhiozzi, ma sono riuscita a fuggire da lì; mi ricordavo della mia gente, ero con loro, ero protetta… All’improvviso, ha estratto molto bruscamente la canna della pistola dal mio interno, dicendo agli altri “guardate come ha goduto, questa puttana”, “bisognerà rifarlo, che alla troia è piaciuto…” . Sono tornata alla realtà, mi faceva male dappertutto… Mi hanno di nuovo mostrato le fotografie, una ad una e, di ogni persona, mi ripetevano quello che io avevo detto (il paese del quale erano…), oltre a ciò di cui volevano accusarla, mi dicevano che dovevo imparare tutto a memoria, per ripeterlo quando mi avrebbero portato di sopra, a deporre… L’hanno ripetuto molte volte e io dovevo a mia volta ripetere ancora ed ancora e, se mi confondevo, ricominciavano a picchiarmi sulle orecchie con le mani aperte ed a minacciare di violentarmi di nuovo. Mi hanno riportata in cella, messo dell’altro “siero” negli occhi e mi hanno lasciata lì per un po’ finché hanno nuovamente bussato; mi sono messa al mio posto e mi hanno dato pantaloni e maglione per portarmi a deporre.
Ero nella stessa stanza di prima, con gli stessi agenti, ma questa volta l’“avvocato” era un uomo (non l’ho visto, ma ho sentito la sua voce); questa volta mi hanno mostrato le fotografie, su ogni foglio ce n’erano sei o sette, dovevo firmare sulle fotografie di chi conoscevo e dire come mai lo conoscevo. Ero molto nervosa e non ricordavo la maggior parte dei dati, ogni volta che esitavo, sentivo bussare dall’altra parte dello specchio, come durante l’interrogatorio precedente, per tenermi sotto pressione; è andata avanti così fino a che non abbiamo fatto passare tutte le fotografie e, quando abbiamo finito, mi hanno detto che mi avrebbero fatto l’esame del DNA, che volevano sapere se acconsentivo. Siccome ero terrorizzata e non avevo la forza di rifiutare, ho detto di sì; mi hanno fatto un tampone, mettendomi in bocca un paio di bastoncini, di quelli per pulirsi le orecchie. Per portarmi fuori dalla stanza, mi hanno di nuovo coperto gli occhi e mi hanno riportato dal medico legale, che mi ha fatto le stesse domande, chiedendomi se avevo le mestruazioni, se avevo subito maltrattamenti eccetera; ma, come la volta precedente, non ha scritto nulla sul suo quaderno.
Mi hanno riportata in cella, dove sono rimasta qualche ora, direi “tranquilla”, anche se bussavano ed aprivano lo spioncino, ma senza entrare; non riuscivo a dormire, perché ero terrorizzata e nervosa, non riuscivo a togliermi dalla testa quello che mi avevano
fatto… erano arrivati persino a violentarmi, non poteva succedere niente di peggio, mi sentivo sporca, mi faceva schifo solo pensarci, non sapevo perché mi avessero violentata e non riuscivo a smettere di piangere. Quando sono tornati a prendermi, ho avuto un leggero capogiro, di certo per la paura e prima che mi riportassero alla sala degli interrogatori ho chiesto che mi lasciassero andare in bagno; la voce di una donna mi disse di fare in fretta, appena entrata in bagno, mi sono tolta il tanga per vedere se mi avessero causato qualche lacerazione o qualcosa del genere, perché mi faceva molto male, ma era tutto “a posto”… Nella piastra di metallo che c’era sul boiler, mi sono guardata l’occhio ma non era più arrossato, c’erano solo le lacrime che cadevano, ma stava meglio…
Mi hanno detto che mi avrebbero portato nella sala degli interrogatori, mi hanno messo al solito posto; lo stesso agente mi ha detto che ero lì da due giorni e che, come avrei dovuto sapere, i miei compagni avevano avuto il tempo di scappare, che ormai sapevo di cosa erano capaci, che cominciassi a parlare… Gli ripetevo, fra i singhiozzi, che non sapevo niente e lui cominciava a gridare; mi parlavano di qualsiasi cosa, del mio compagno, della mia famiglia, del lavoro, degli studi… fino a quando si stancavano e minacciavano di violentarmi ancora, di spaccarmi la testa a pedate…
Da quel momento in poi, tutto è stato in qualche modo più tranquillo; mi hanno messo il sacchetto sulla testa altre due volte, come se fosse stato un gioco, quando non me l’aspettavo e questo mi spaventava ancora di più… Mi hanno portata ancora una volta nella stanza dove tenevano la vasca da bagno e mi ci hanno rimesso la testa una volta; più che altro, ho subito minacce di violentarmi, di mettermi il sacchetto, di affogarmi nella vasca e così via, dicevano che quello che avevano fatto a me l’avrebbero fatto anche ai miei familiari. Erano molto insistenti riguardo il mio compagno e, intanto, mi facevano molte domande; mi hanno detto che avrei dovuto fare una nuova deposizione e che, in quella, mi avrebbero fatto domande solo su di lui , come hanno poi fatto in un breve interrogatorio. Mi hanno portata di nuovo in cella, bendata; nell’entrare, mi sono messa a piangere…All’improvviso, ho sentito la voce del solito Guardia Civil, che diceva di mettermi contro il muro; tremavo, terrorizzata, non riuscivo a togliermi dalla testo quello che mi aveva fatto quel tipo quando sono entrata in cella… Pensavo che lo avrebbe rifatto; quando ho fatto come mi aveva ordinato, è entrato e, nell’aprire la porta, ha cominciato a parlarmi…dovevo approfittarne per dormire, dovevo pensare bene a ciò che avrei detto davanti al giudice e che dovevo essere furba, perché dovevo sapere che se non avessi detto tutto ciò che avevo dichiarato lì, sarei tornata da lui e che, allora, non ne sarei uscita viva. Diceva che non avrei potuto raccontare a nessuno ciò che era successo lì, sia perché loro lo sarebbero venuti a sapere, sia perché alla gente avrei fatto schifo, soprattutto al mio compagno, perché, secondo lui, non avrebbe più avuto voglia di stare con me; dopo avermi detto queste cose, ha chiuso la porta e se n’è andato.
Poco dopo, la donna Guardia Civil mi ha ordinato di mettermi contro il muro, perché mi avrebbe lasciato un panino ed una bottiglietta d’acqua sulla branda; ho fatto come mi aveva ordinato e, quando ha richiuso la porta, ho visto il panino sulla branda: non ho assaggiato né il cibo, né l’acqua, perché temevo che ci avessero messo qualcosa, qualche droga e lei è rientrata a prenderli.
In quei momenti, cercavo di tranquillizzarmi, pensando ai miei, ripetevo a me stessa che loro erano al mio fianco, perché sentivo una profonda solitudine… non sapevo da quanti giorni fossi lì, nelle mani dei miei torturatori e temevo che fosse una bugia la storia che mi avrebbero portata presto dal giudice… All’improvviso, hanno bussato molto violentemente e mi sono messa contro la parete, terrorizzata, perché i colpi erano stati molto violenti; quando ho sentito aprirsi la porta, due uomini mi sono saltati addosso mentre, ridendo, mi dicevano che questa volta mi avrebbero violentata davvero… All’inizio ho usato tutte le mie forze per cercare di liberarmi di loro, ma era impossibile ed uno mi dava degli schiaffi per farmi smettere; la porta era aperta e ce n’era un altro che guardava all’esterno, uno di quelli che erano entrati mi ha costretta a restare sulla branda, mentre mi afferrava per le braccia e si abbassava i pantaloni. Piangevo, disperata, ma poi sono rimasta assolutamente ferma, perché non avevo più forze per resistere, “cosa credevi, che te la saresti cavata così?” mi diceva quello con i pantaloni abbassati; quando mi si è buttato sopra, non mi sono mossa, lo guardavo negli occhi, con odio e non riuscivo a smettere di piangere. Sfregava il suo corpo contro il mio e mi diceva delle porcherie ma, ad un tratto, tutti si sono messi a ridere e se ne sono andati, lasciandomi in un angolo della branda, rannicchiata, dicendomi che facevo loro schifo; a quel punto ero disorientata, non ne potevo più, volevo essere con la mia famiglia, uscire da lì, che l’incubo finisse…
Quando sono tornati a prendermi, era passato molto tempo, è venuta la donna e mi hanno portata al bagno, con gli occhi bendati, mi hanno obbligata a fare la doccia e mi hanno fatto indossare abiti puliti; quando ho finito mi hanno rimesso la benda, mi hanno portata fuori dal bagno e siamo rimasti lì qualche minuto, fermi, finché è arrivata la macchina della Guardia Civil. Mi hanno detto che davanti al giudice dovevo confermare le deposizioni, che altrimenti sapevo cosa mi aspettava e di non dire nulla delle torture se non volevo tornare lì… Dopo avermi detto così, se n’è andato; mi hanno messa in un furgone, tolta la benda, mi portavano alla Audiencia Nacional (Tribunale speciale spagnolo, N.d.T.), ho cominciato a piangere, alla fine, ero fuori da quell’inferno…
I Guardia Civil che hanno partecipato agli interrogatori sono stati: quello che faceva le domande, era uno giovane, sui 30 anni, biondo, con lunghe basette, sotto il labbro aveva un poco di barba, alto circa 1,80, naso grosso, capelli rapati, occhi chiari, pelle bianca e parlava un euskera (lingua basca, N.d.T.) con accento di Bizkaia molto stretto. Quello che scriveva era anziano, sulla sessantina, capelli brizzolati, grassoccio, basso di statura e con il viso rotondo.