Grazie alle compagne del Mfla per la gentile concessione della trascrizione e traduzione dell’intervista che hanno realizzato a Pinar Selek.
Radio OndaRossa, ottobre 2012
A cura del Martedì Femminista e Lesbico Autogestito
mfla.noblogs.org
Pinar Selek, femminista, antimilitarista, fa parte del collettivo Amargi. Perseguitata dalla giustizia turca, vive in esilio dal 2009.
Nel 1998, a seguito della sua ricerca sociologica sul conflitto armato tra Turchia e Kurdistan, Pinar viene arrestata e pesantemente torturata per essersi rifiutata di rivelare i nomi degli esiliati curdi che aveva intervistato. Con l’arresto, il suo lavoro di ricerca viene sequestrato.
In carcere viene informata di essere accusata di un presunto attentato (rivelatosi poi un incidente) avvenuto nel 1998 a Istanbul. Pinar rimarrà due anni e mezzo in carcere. Liberata nel dicembre del 2000 è stata definitivamente assolta nel 2006, dopo un processo durato più di cinque anni.
Nel marzo 2009 il suo caso, che era stato chiuso, viene riaperto e lei si trova di nuovo sotto la minaccia di un processo in cui rischia 36 anni di carcere. L’accanimento dello Stato turco continua a tutt’oggi.
Pinar fa parte del collettivo femminista Amargi che dal 2001 è attivo a Istanbul e Ankara nella lotta contro la violenza sulle donne, la militarizzazione della società e per la diffusione del femminismo in Turchia.
La sua ricerca militante ha indagato le strutture repressive all’interno della società, le dinamiche politiche di esclusione e marginalizzazione, le esperienze concrete di percorsi di liberazione individuali e collettivi, la costruzione della mascolinità all’interno di contesti militari
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La prima domanda che ti voglio fare è: come sei diventata femminista?
Non lo so, credo che sia stato un processo lento e allo stesso tempo è arrivato tutto d’un colpo. All’inizio non mi definivo come femminista, ma vedevo come una femminista. Perché criticavo e analizzavo le cose, trovavo dei legami nei rapporti sociali di dominazione… perché ero nelle strade facevo un sacco di cose, con le lavoratrici del sesso, le prostitute, mi sono confrontata con tutti i tipi di discriminazione. Venivo da una famiglia molto alternativa, di sinistra, mio padre era stato in prigione, da piccola ho passato il mio tempo davanti alle prigioni, in mezzo a migliaia di persone che resistevano, quindi sono cresciuta all’interno della resistenza.
All’università soprattutto quando ho iniziato a leggere tutte le analisti, ho fatto dei legami a livello teorico e scoperto le teorie femministe che rispondevano alle mie questioni, avevo una posizione radicale, ovvero volevo radicalmente la libertà, radicalmente nel senso che volevo la libertà dalle radici. Allora scavavo in continuazione, il marxismo non mi era sufficiente, altre teorie neanche, non mi dicevo anti, ma queste teorie non mi bastavano, ero piuttosto anarchica, ma ugualmente questo pensiero non mi era sufficiente. Mettevo in discussione l’androcentrismo, la dominazione dell’uomo sulla natura, ecc.
Ma quando ho incontrato le teorie femministe è stata un festa per me, perché grazie a questo ho iniziato a fare legami con la dominazione nella vita privata, ho capito che il privato è politico. E il metodo soprattutto dell’analisi femminista che può legare le cose e mostrare l’altra faccia delle cose, mi è parso tutto molto importante…allora ho iniziato a dirmi femminista, all’università, ma quando ho conosciuto le teorie femministe non mi sono più fermata, come una persona che si trova nel deserto ho iniziato a leggere tutto tutto tutto…e a pormi delle domande perché avevo esperienze molto importanti e avevo bisogno di analizzarle per comprendere me stessa, per comprendere la società, per comprendere la mia vita, per comprendere come continuare a vivere, ecc., perché la strada che frequentavo era molto maschile, il militarismo che ho vissuto dentro casa, perché i militari sono venuti a prendere mio padre, hanno distrutto tutta la casa, allora sono sempre stata testimone di tutte le fasi del sistema militarista e per questo volevo analizzarle molto radicalmente, cioè alla radice, per cambiarle veramente, soprattutto mettevo in discussione la violenza, perché io sono una persona che cerca la felicità e la libertà, perché per me non si possono separare. Per me la libertà è il contrario della violenza perché la violenza è limitare tutte le volontà di un’esistenza, volevo veramente lottare contro tutti i meccanismi che istituzionalizzano, che legittimano, che creano, che producono la violenza. Quindi l’analisi del patriarcato ha completo le mie idee… ma non mi definisco solamente come femminista, sono femminista, sono molto orgogliosa di definirmi femminista, è grazie al femminismo che posso essere più attiva negli altri ambiti, ma sono anche ecologista sociale, anarchica, ho molte posizioni politiche. Un’unica filosofia o prospettiva non è sufficiente per esplicare tutte le problematiche della nostra esistenza e del mondo intero, ma il femminismo è molto importante per me. Sì, come ho scoperto il femminismo? La risposta è questa!
Un punto molto particolare delle tue ricerche e dei tuoi scritti è il legame tra femminismo e militarismo, costruzione della mascolinità nell’esercito, hai pubblicato ed analizzato e siccome non è una cosa molto diffusa, conosciuta per noi, perché sia in Francia sia in Italia il legame tra femminismo e antimilitarismo non è molto forte, non ci sono tanti scritti, siamo dunque interessate a che tu ce ne parli.
D’accordo, forse per il movimento femminismo in Turchia non è la cosa più importante, anche da noi ci sono differenti gruppi con differenti posizioni. Ma per la Turchia posso dire che il movimento femminista, come movimento è nato dopo il colpo di stato degli anni ’80. Perché prima c’era solo il femminismo di stato, non era indipendente. Il movimento femminista negli anni 90 si è costituito staccandosi dallo stato e dalla sinistra, staccandosi anche dal discorso militarista, perché all’epoca quando lo stato, dopo la fondazione della repubblica, diceva alle donne “sono io stato che vi libero” e c’erano dei modelli di donna molto militari e molto liberi, con i capelli corti e le gonne corte (ma non sexi, stile militare), che bombardavano i curdi come pilote, negli anni 30. In seguito le femministe hanno detto che in quell’epoca le donne erano emancipate ma non liberate.
Dopo gli anni 60 quando la sinistra era molto forte, tutti parlavano della liberazione delle donne e della loro emancipazione, ma non permettevano loro di organizzarsi come donne, dovevano sempre restare legate ad una grande causa. Allora noi abbiamo veramente voluto emanciparci da questi meccanismi militari, sia della sinistra sia dello stato. Abbiamo profondamente messo in discussione tutto ciò.
Possiamo dire che negli anni 90 c’è stata la seconda ondata del femminismo, che faceva molte manifestazioni, lotte, ecc, ma era un movimento piuttosto turco, eterosessuale e di classe media. Ma poi quando il movimento curdo si è sviluppato in Turchia, dopo gli anni 90, e quando il movimento lgbt e quando gli altri movimenti sociali si sono sviluppati, il movimento femminista ha iniziato a interrogarsi: soprattutto le lesbiche e le donne curde, ecc, hanno iniziato a mettere in discussione le differenze e le gerarchie tra le donne. Abbiamo iniziato a chiederci quale potrebbe essere il nostro ordine del giorno, la nostra attualità, quale potrebbe essere l’obiettivo della nostra lotta, perché per le donne curde c’erano altri problemi, e per le lesbiche altri ancora, allora come connetterli tra loro? Dopo gli anni 90 grazie allo sviluppo di altri movimenti e grazie alla presa di parola di donne che vivono e subiscono altri schiaffi del patriarcato… perché il patriarcato è pieno di mani, di braccia… quindi tutte le donne subiscono differenti schiaffi in rapporto alla loro situazione e gerarchia sociale (essere curde, essere lesbiche, essere povere, ecc.). Bisogna veramente essere in grado di vedere tutto ciò…
Penso che, non si possa analizzare il genere – tra virgolette – separandolo dai rapporti sociali di sesso che sono articolati su differenti rapporti di potere. Abbiamo visto che quando il movimento femminista prende parola in altre manifestazioni e lotte, come quelle contro la guerra o contro i discorsi nazionalisti, tutti gli altri movimenti diventano più forti, vengono rafforzati, perché senza una prospettiva femminista è molto difficile analizzare i meccanismi del nazionalismo, oppure del militarismo, o anche dell’eterosessismo. Perché bisogna mostrare i meccanismi, senza mostrarli i movimenti diventano molto superficiali e le lotte assumono delle rivendicazioni molto limitate.
In Turchia abbiamo visto molto facilmente, questa è stata una fortuna e una sfortuna allo stesso tempo, abbiamo visto che i rapporti di dominazione tra i sessi non si creano solo all’interno della famiglia, ma anche nello stato, nella scuola, in tutte le istituzioni pubbliche, che creano [i rapporti di dominazione tra i sessi] tutto il tempo.
Io personalmente, ma anche molte altre donne in Turchia, molte mie amiche, le compagne di Amargi, per esempio, lottando contro il patriarcato, abbiamo visto molto chiaramente che le differenti donne sono modellate in funzione delle loro differenti posizioni nel sistema e nella società gerarchizzata. Allora per noi il femminismo diventa una politica di libertà che oltrepassa le frontiere delle rivendicazioni per l’uguaglianza, ecc. Noi vogliamo veramente la libertà e vogliamo veramente cambiare l’ordine di tutte le cose, che è maschile. Ma veramente vogliamo la libertà per tutte e tutti e crediamo che il nostro femminismo è questo.
Se non lottiamo contro il patriarcato con tutti i legami che ha con gli altri rapporti di dominazione, se ci limitiamo soltanto ad analizzare i rapporti tra uomo e donna, la diseguaglianza, la violenza contro le donne… vediamo che il patriarcato cresce e cresce… Allora ci chiediamo di cosa si nutre ogni volta… allora cambiamo di rivendicazioni e quando le otteniamo, vediamo che il patriarcato ha trovato un altro meccanismo di oppressione, per esempio ha trovato la violenza simbolica, perché? Perché non riusciamo a vedere le radici che nutrono il patriarcato. Noi siamo radicali, per noi il femminismo radicale non è solamente un essenzialismo, o un separatismo o l’essere solo tra donne, cioè sì, noi siamo donne e non siamo un’organizzazione mista, ma siamo anche molto attive, creiamo alleanze su varie piattaforme in tutte le lotte. Siamo radicali e vogliamo cambiare il sistema in questo mondo.
Ci sono molti luoghi in cui il patriarcato viene costruito, e dove viene costruita l’oppressione delle donne, non solo la famiglia. Vorrei chiederti cosa avviene nell’esercito riguardo alla costruzione della mascolinità.
Ho fatto una ricerca sulla costruzione della mascolinità nell’esercito, e soprattutto nel servizio militare. In Italia oggi non esiste [più] un servizio militare come quello che c’è da noi, non è [più] obbligatorio, come da noi, ma noi abbiamo quest’obbligo, che diventa un meccanismo di costruzione della mascolinità.
Ci sono 5 tappe attraverso le quali un uomo diventa uomo nella nostra società. La prima tappa è la circoncisione, la seconda è il servizio militare, la terza: trovarsi un lavoro, la quarta, trovarsi una donna, possedere una donna, e la quinta, avere almeno un figlio da lei. Queste 5 tappe sono molto importanti per gli uomini.
Allora, io ho voluto fare questa ricerca perché ho voluto prendere in considerazione questo spazio omosociale, considerandolo come un laboratorio sociale, perché vi si incontrano uomini di differenti estrazioni sociali, e vi si possono leggere molte cose: come si creano gerarchie tra loro, come si ripartiscono in gruppi e come si creano dei modelli, come si sottomettono, come vengono valorizzati e svalorizzati allo stesso tempo, e come il gran capo, cioè lo stato, il maschile con la M maiuscola, li femminilizza e li defemminilizza, nella misura in cui femminilizzarli significa umiliarli, perché per lo stato virilizzazione significa defemminilizzazione. Quindi nel femminilizzare gli uomini, dicendo loro “adesso vi umilio, siete come delle donne”, gli uomini, umiliandosi e sentendosi umiliati, vogliono continuamente provare la loro virilità.
Ci sono molte cose di cui possiamo parlare riguardo questo processo, perché può mostrare molti aspetti visibili nella società, per esempio nelle imprese, o in altri contesti. Il servizio è un vero e proprio laboratorio sociale che mostra un’infinità di aspetti. Faccio un esempio: quando i militari entrano [in caserma], insieme, tutti debbono spogliarsi, si devono levare tutti i peli, rasarsi completamente, poi ricevono abiti, il tutto in 5 minuti perché c’è chi grida “veloci, veloci”… se non si è veloci si viene picchiati, pestati (c’è molta violenza), poi vanno davanti allo specchio e non si ritrovano più, non riconoscono più la propria immagine, dicono “non sono io”. Questo è un simbolo che mostra bene come nel sistema siamo obbligati ad indossare gli abiti del genere, nel servizio militare appare più brutalmente, ma anche nel sistema dei media, o in altri contesti, è pieno di uniformi e di abiti che dobbiamo indossare.
Questo libro ha suscitato molte discussioni in Turchia, non solo nel movimento femminista, perché era la prima volta che una femminista parlava del servizio militare e degli uomini.
Quando mi hanno messo in prigione ero sicura che avrebbero anche vietato il libro, perché nella costituzione c’è un articolo molto chiaro: è vietato criticare il servizio militare, creare un “raffreddamento” un’antipatia contro il servizio militare; è un articolo molto chiaro e ci sono molte persone in prigione per questo. Ma il libro è stato pubblicato, ne hanno parlato le televisioni, ne abbiamo discusso in molti posti ed io ho fatto un giro della Turchia, sono andata dove mi hanno invitata, anche molti uomini volevano discutere di ciò… Io ero una militante femminista molto conosciuta e tutti erano stupiti del fatto che avessi fatto una ricerca sugli uomini e io rispondevo “perché sono una rivoluzionaria”, perché voglio veramente decodificare il sistema patriarcale, non voglio militare insieme agli uomini nel movimento femminista, ma gli uomini possono creare i loro gruppi per mettersi in discussione ed interrogarsi, ma questo non sta a me, io lotto per le donne, ma posso anche fare delle alleanze con altre lotte.
Ma non hanno vietato il libro, non mi hanno mai vietato, ci sono in Turchia molti miei libri che circolano e che non vietano. Con me hanno usato un’altra tecnica, mi hanno accusata di essere una terrorista. E dopo la pubblicazione del libro, 4 mesi dopo ho dovuto lasciare la Turchia, perché mi accusavano di essere colpevole di un attentato terrorista, quindi ho dovuto lasciare la Turchia. Ma dopo il libro c’è stato un gruppo di uomini che si è creato: erano soprattutto amici di femministe, anarchici o gay… e hanno creato un gruppo per discutere e per scrivere le loro esperienze, ecc.
Posso anche dire che durante le torture, per esempio… io ho vissuto delle grandi torture, in prigione ho vissuto con delle donne che erano state stuprate e che avevano vissuto delle torture atroci… fatte dagli uomini, ma anche dalle donne, anche delle donne mi hanno torturato… Quando sono uscita dalla prigione, sono passati degli anni, un giorno ho visto in televisione un video che credo abbiate visto anche voi, un video dell’Iraq, che è stato diffuso dopo la guerra in Iraq, un video di una guardiana americana che violenta un prigioniero arabo. Tutti ci hanno chiamato, i media ci hanno chiesto: cosa dite come femministe? Sì quello che noi diciamo è questo: il sistema patriarcale utilizza la sessualità e tutto ciò che di morale vi è legato, come l’onore, ecc. (che sono tutti [concetti] maschili). Questa donna è una donna, ma la biologia non è importante, perché noi parliamo di genere, di costruzione sociale [del genere], questa soldata indossava l’abito, il costume del sistema patriarcale… E gli Stati Uniti con questo gesto volevano dire “la mia donna è più maschile della tua perché ti penetra”, è la penetrazione! È questo: la penetrazione è la dominazione.
Hai già parlato molto dell’evoluzione e della storia del movimento femminista, vuoi aggiungere qualcosa? E ci vuoi parlare anche di Amargi?
Allora, vi ho detto che dopo gli anni 90 il movimento femminista ha iniziato ad interrogarsi a partire dalla partecipazione – tra virgolette – di altre donne che hanno aperto delle discussioni all’interno del movimento femminista. Poi si è verificata, come dire, una sorta di resistenza nel movimento femminista: soprattutto le fondatrici, diciamo di una generazione più vecchie di noi, volevano limitare la lotta solamente alla lotta contro le violenze fatte alle donne e alla rivendicazione dell’uguaglianza. Parlavano anche di libertà, ma in generale si limitavano alla sessualità eterosessuale. Quindi quando le donne di Amargi hanno creato il collettivo, ci hanno detto che noi dividevamo il movimento e che non bisognava dividere il movimento. Ma noi abbiamo risposto che sì voi avete ragione, ma forse voi avete anche paura, perché se parliamo sempre degli stessi temi non possiamo avanzare, perché così si diventa un gruppo molto marginale. In quel periodo i 2 movimenti avevano fatto una grande riuscita (sortie), che però iniziava a ripetersi. E noi, le donne di Amargi, volevamo creare un’altra cosa, eravamo molto differenti tra noi, eravamo differenti per l’orientamenti sessuali, per l’appartenenza etnica, o l’appartenenza di classe, eravamo molto differenti tra noi, eravamo 6 o 7 donne, non molte. E prima di partire abbiamo iniziato a discutere di noi, abbiamo discusso molto e ci siamo chieste: come fare? Abbiamo iniziato organizzando delle grandi manifestazioni contro la guerra, poi ci siamo avvicinate molto al movimento lgbt – il movimento lgbt non è come qui, da noi è pieno di gruppi, ma manifestiamo insieme e soprattutto da noi i gay si dicono femministi e sono anarchici ed antimilitaristi, e sono molto politicizzati. Ci sono sempre dei problemi, ma ne possiamo anche discutere.
Allora di Amargi si diceva che fosse un’organizzazione femminista di lesbiche e di curde.
In un anno Amargi è divenuto molto grande, in tutta la Turchia, ad Adana, xxx nelle differenti città le donne ci hanno contattato, ci hanno detto: “aspettavamo che nascesse un gruppo così”, quindi siamo cresciute molto velocemente, soprattutto ad Istanbul ed anche ad Ankara. Facevamo delle manifestazioni che erano piene di donne. Abbiamo capito chiaramente che se parli solo della sessualità, solamente dell’eguaglianza, le donne non vengono, perché differenti problemi toccano differenti persone. Se cominci ad aprirti e ad aprire le porte le persone entrano. Non l’abbiamo fatto apposta, per organizzarci con molte donne, la nostra linea politica era così, io l’ho fatto per me e anche le altre, ognuna l’ha fatto per se stessa, ma la conclusione è stata ottima!
Credo che ora nel movimento femminista questa linea sia riconosciuta, ora le lesbiche sono molto più visibili… Ma ora c’è un altro problema, ci sono molti dibattiti e discussioni nel movimento femminista (il che è sempre positivo), ci sono molte questioni riguardo l’istituzionalizzazione che ci prende molto tempo e che ci allontana dal fare la politica, perché si diventa parte di una “polizia”, polizia vuol dire dirigere, organizzare, far parte dell’amministrazione… abbiamo bisogno anche di questo… ma moltissimi fondi e risorse internazionali delle Nazioni unite o della Unione europea, milioni e milioni di euro colano (si riversano) verso il movimento femminista. C’è quindi una professionalizzazione, un’istituzionalizzazione, che ci pone un grande problema.
Amargi pubblica una rivista teorica che è distribuita in 3 mila esemplari come minimo, forse ora di più, e allo stesso tempo come dicevi è un gruppo o un collettivo, o dei collettivi, che sono cresciuti, e che toccano molte donne. La domanda è: come arrivate a volte a creare delle teorie e a comunicare queste teorie e a comunicare con le donne ovunque?
Sì, ve l’ho detto che siamo radicali! Perché per me radicale non vuol dire estremista, sì lo so che voi lo sapete. Per me essere radicale significa afferrare la radice delle cose. Allora per noi la riflessione e la capacità di manifestare sono 2 cose inseparabili. Prima di fondare Amargi, quando discutevamo tra noi, abbiamo anche discusso su come il patriarcato è costruito, come gli altri sistemi di dominazione sono costruiti. Abbiamo capito chiaramente che separano le cose [teorie e politica], innanzitutto istituzionalizzano ma con una autonomizzazione del campo politico e una autonomizzazione del campo accademico. Quindi ci sono delle persone che riflettono per noi e delle persone, i politici, che cambiano le nostre vite. Allora ci siamo dette che bisogna distruggere ciò, siccome siamo radicali vogliamo distruggere l’ordine delle cose. E come si può distruggere ciò?
Ci siamo dette che noi siamo un’accademia! Abbiamo scritto su un grande striscione che siamo un’università. Amargi è un’università! Quando entrate ad Amargi vedete una grande scritta: “per noi vivere è il più importante lavoro universitario”… o una cosa del genere, è davvero bello!
Allora, noi viviamo e che facciamo delle cose e riflettiamo sempre insieme seconda volta e sviluppiamo delle analisi su ciò che viviamo, perché non vogliamo che siano gli altri a fare ciò al nostro posto, per cui dobbiamo rinforzare innanzitutto le nostre capacità, e anche le nostre capacità politiche, perché non vogliamo lasciare le nostre vite in mano ai politici. Ma [pratica e analisi] non vanno separate, è il sistema che funziona con questa separazione.
In quel periodo c’era anche una grande distanza tra le femministe universitarie e le femministe militanti, quindi ci siamo dette che bisognava creare dei legami, degli spazi collettivi di discussione, dei collegamenti… e nella nostra rivista ci sono sia le militanti sia le universitarie che lavorano insieme e ciò è molto positivo perché ci permette di analizzare insieme il nostro “act-act” (?), le nostre manifestazioni, quello che viviamo e possiamo anche seguire ciò che viene discusso all’interno delle università, facciamo anche delle traduzioni. Ma non discutiamo solo di donne, anzi con la nostra prospettiva femminista [discutiamo di tutto], per esempio abbiamo fatto dei dossier sulla povertà, sulla globalizzazione, su molte cose… molto sulle donne, ma non solamente sulle donne. Credo che questo ci renda più forti. E nella prima rivista, 6 anni fa, abbiamo scritto una prefazione in cui abbiamo detto che le nostre tasche sono piene di pane, ma se ne mangiamo in continuazione, se mangiamo sempre le stesse cose, questo pane finisce, allora bisogna aggiungerne: abbiamo bisogno di teoria, non possiamo continuare sempre con la stessa teoria, bisogna sviluppare nuove teorie a partire dalle nostre pratiche, dalla nostra praxis: diciamo che il pane non deve finire.