di V. S.
Io Antonin Artaud, sono mio figlio, mio padre, sono mia madre e sono io; sono colui che ha abolito il periplo idiota nel quale si ficca l’atto del generare il periplo papà – mamma e il bambino
(Antonin Artaud, Ci-git)
E’ la notizia di questi giorni, sui giornali ufficiali ma anche nel tam tam della controinformazione, radio, blog, voci contro. Il video del bambino prelevato dalla forza pubblica a scuola ha avuto un effetto mediatico immenso, tutti ne parlano, è già partita la mobilitazione impalpabile dei social networks, ed è, malgrado la pluralità variegata delle voci che ne parlano e condannano, tutta o quasi a senso unico.
Lo Stato è autoritario – ma va?- e quando agisce attraverso i suoi mandanti, che siano poliziotti o medici, o giudici, non può che farlo in modo autoritario. Nasce dalla requisizione delle violenze individuali, alienate a favore della violenza generale (Rousseau parlava di volontà individuali e di una volontà generale, che però, di fatto, sono la possibilità di utilizzare individualmente la forza e la creazione di una forza pubblica che non ammette altra forza all’infuori di sè). Non esiste uno stato buono o più democratico che non utilizzi modalità autoritarie, perchè il suo sorgere si identifica, appunto, con un atto originariamente autoritario. Non esistono democrazie più democratiche di altre, nè quelle dirette lo furono più delle moderne- le democrazie rappresentative – se le democrazie dirette, a volte persino invocate – forse senza troppa consapevolezza storica- da alcuni che si oppongono al regime ed alla casta, potevano funzionare solo in virtù della schiavitù dei molti, che liberava il tempo della politica per i pochi cittadini a pieno titolo.
I medici, e la medicina di stato e delle multinazionali, sono autoritari – ma va? – e gli psichiatri ancor di più – ma va?
La nostra cultura si fonda sulle partizioni binarie, lo stesso concetto di Occidente si ricava, nei secoli, attraverso la contrapposizione all’Altro. L’Altro-di-fuori, l’Oriente, lo straniero, il barbaro, il terrorista, l’islamico e l’Altro-di-dentro, il Pazzo, il Malato Mentale, il Criminale, il Deviante (l’elaborazione sociologica più moderna, universitaria e ritenuta politicamente più corretta del concetto di Criminale). Una cultura siffatta necessita di fabbricare continuamente al proprio interno una serie di Alterità irreducibili, di zone di segregazione, che sono altrettante fucine identitarie per il -noi/io- attraverso la negazione, la classificazione, la riduzione e la segregazione del -voi/tu-. E così negli ultimi decenni, sul fronte psicologico-psichiatrico le sindromi si sono moltiplicate. Molto spesso con la stessa arbitrarietà faziosa e perversa con cui Freud attribuiva, per mera necessità di far quadrare il teorema, l’invidia del pene alle donne. Solo che oggi la psicanalisi, con le sue efferatezze ed il suo paternalismo/maternalismo è in declino (non c’è rimpianto, per chi scrive, anzi, solo constatazione di una rottura epistemologica e dell’avvento di una nuova episteme, con i suoi dispositivi, le sue sindromi, i suoi Altri, la sua intrinseca normatività). Il paziente diventa cliente nelle terapie, più brevi, cognitivo-comportamentiste. Da un punto di vista squisitamente liberale, di economia di mercato, il nuovo cliente dello psichiatra, che va e paga per ricette di farmaci prescritti sulla base di test proiettivi somministrati dai valvassini del barone universitario di turno, è persino più libero del vecchio paziente dello psicanalista, con la sua infinita terapia della parola, che non finiva mai, e ricreava intorno all’individuo un’aura familiare e catene simboliche di dipendenza. Il DSM IV è uno dei migliori esempi di tale tendenza classificatoria e iper-patologizzante, oltre che della bontà delle tesi di Kuhn sulla scienza e il suo carattere paradigmatico: basta che un gruppo di specialisti si trovi d’accordo nel ritenere una certa costellazione di comportamenti validati statisticamente come patologica et voilà, il gioco è fatto, la sindrome anche. Grappoli di comportamenti sono tagliati via da altri comportamenti, situazioni, vissuti, in una parola dal resto (che poi è il mondo sociale, delle relazioni affettive e materiali, dei rapporti di ri/produzione…) e trasformati in sintomi di una sindrome. Procedimento molto economico, sia in termini di remunerazione professionale e farmacologica, sia in termini di tempo, e che soprattutto consente di farla finita con ogni critica.
Ogni malessere si trasforma automaticamente in patologia, ogni complessità dell’umano, come tale irriducibile entro lo schema di una causalità lineare e monotematica, è immediatamente appiattita sul sintomo patologico. La PAS, sindrome da alienazione parentale, è una delle sindromi, anche una delle più controverse, prodotte in questi anni. In America funziona parecchio, in Europa gli specialisti si oppongono o tentennano, ma ancora non per molto se ha potuto influenzare la recente disposizione del tribunale di cui tanto si parla in questi giorni. Ma vi è, appunto, una tendenza classificatoria in atto da tempo ben più estesa e radicata. Un altro esempio? Ormai è comune, nelle scuole elementari e medie, la proliferazione delle BES, una nuova categoria, che si affianca alla certificazione HC (alunni diversamente abili) e per DSA (disturbi specifici dell’apprendimento: dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia). BES: bisogni educativi speciali. I DSA rientrano nei BES, ma i BES sono una categoria molto più ampia e sfumata, e molto inquietante, da certi punti di vista. Sono ritenute infatti ragioni di Bisogni Educativi Speciali, con sigla e protocollo – quindi “sindromiformi”- una serie infinita di situazioni molto diverse tra loro: dalla disabilità alla devianza, da situazioni di svantaggio economico e sociale a condizioni di marginalità fino, addirittura, alle emergenze dovute a eventi calamitosi…..insomma un gran calderone che associa obiettive difficoltà imputabili a disturbi neurologici o handicap fisici a situazioni sociali, economiche, familiari di subalternità. Cosa significa riunire l’handicap psico-motorio e la marginalità (socio-economica) nella stessa categoria?
Da un lato questa tendenza in atto nella scuola significa probabilmente anche, a non voler pensare solo male, un tentativo di renderla maggiormente inclusiva, capace di tenere in conto alcune cose. Si tratta senza dubbio di una necessità reale visto l’impressionante numero di casi di abuso di potere degli insegnanti sugli studenti più piccoli e più fragili – non è infrequente, ancora oggi, incontrare professoresse che puniscono dislessici certificati gravi condannandoli a scrivere 100 volte la stessa frase, cosa vietata oltre che dal buon senso anche dalla normativa vigente. Dall’altro però, tale tendenza non può che avvenire nella forma classificatoria e patologizzante tipica di certe correnti psichiatrico-psicologiche, immediatamente recepite anche dalle istituzioni. Perchè? Perchè la spiegazione e la classificazione in termini clinico-diagnostici, con il suo riduzionismo patologizzante, consente l’espunzione totale del carattere politico e sociale di alcune manifestazioni eccedenti la “normalità”, lette invece solo come sintomi di malattie specifiche e determinate. In una parola, si fa piazza pulita della portata sovversiva, critica e parresiastica di ciò che, in altri termini è interpretato come patologico, deviante, biometricamente non funzionante. E così il bambino che non sta fermo nel banco non rappresenta più anche una implicita critica delle modalità di insegnamento e dei modelli di apprendimento oggi correnti, ma diventa solo un malato di iperattività, e la ragazza anoressica presenta sintomi da correggere ortopedicamente con le varie terapie cognitivo-comportamentiste, volte all’abolizione del sintomo, e non più, anche, un corpo che si torce per liberarsi dai cascami dei condizionamenti familiari e sociali. In tal modo ogni “disagio” smette di essere critico, e quindi segnale politico e sociale, e diventa sintomo patologico da curare e raddrizzare.
Cessa di parlare anche un linguaggio politico e sociale e viene parlato da un lessico specialistico che lo aliena e relega nella sfera clinica. Fatto privato e personale, caso specifico, caso individuale.
E’ una tendenza vastissima e fortissima, agevolata, nel caso della scuola, dalla mancanza ormai atavica di fondi, che spinge a ripensare i progetti educativi focalizzandoli sull’individuo piuttosto che sui gruppi, su dinamiche più ampie e di ben più vasta portata. Appunto, casi specifici, casi individuali.
Nei fatti di cui si discute in questi giorni si sovrappongono diverse polizie:
una polizia pedagogica – la scuola, la preside che porta fuori il bambino ma non riesce ad evitare che anche i compagni vedano la scena, la preside che, sbagliando, si convince che quell’uomo che attende fuori scuola ossessivamente, ogni giorno, sia un pedofilo, e non il nonno che piantona il nipote;
una polizia discorsiva, clinica – le perizie psichiatriche, la presunta PAS, gli esperti, gli specialisti;
una polizia propriamente repressiva – la polizia che non si ferma di fronte al casino ormai scoppiato e sequestra fisicamente il bimbo recalcitrante, usandogli violenza.
Le tre polizie agiscono sinergicamente e, in tal modo, ottengono la catalogazione, certificazione, e infine la segregazione dell’individuo. Avviene sempre così, anche se non sempre in quest’ordine perchè la paranoia classificatoria del sistema può prendere avvio da parti diverse di esso, e cambiando l’ordine degli addendi il risultato, per l’individuo, non cambia : nel caso di Padova è la magistratura che ordina un approfondimento del caso segnalato dai Servizi Sociali, attraverso la psichiatria, e che poi ordina alla polizia vera e propria l’esecuzione della terapia corretta per la diagnosi data. Qui dunque è la polizia del discorso clinico a catalogare e diagnosticare ciò che la polizia repressiva esegue. Nel caso di due giorni fa a Verona l’ordine è invertito: un giovane ragazzo autistico grave, che non parla, figlio di immigrati ivoriani, va a fare la spesa coi genitori. Il ragazzo deve fare la pipì, la madre, è un attimo, lo perde di vista. I genitori si preoccupano, non lo trovano più, il ragazzo intanto è in strada, probabilmente agitato e confuso, perchè si è perso. Passa una volante: è negro e grosso. Lo fermano. E’ sicuramente uno spacciatore che ha ingerito ovuli. Non parla. E’ sicuramente perchè è straniero. E’ agitato, molto agitato: beh, si sentirà preso con le mani nel sacco. Lo portano all’ospedale per fargli i raggi e vedere quanti ovuli ha deglutito. E qui avviene l’impensabile: i medici, condizionati dalla prima classificazione fatta dai poliziotti – Criminale – sono incapaci di produrne un’altra, quella tipica della professione – Pazzo/Malato – e lo trattano appunto da Criminale. Lo sedano con farmaci ai quali il ragazzo è allergico e procedono con le radiografie. In questo caso è la polizia a produrre la prima classificazione, la prima diagnosi, e il medico l’esecutore, ma il risultato ovviamente non cambia: l’individuo è atterrito, annichilito, soppresso a favore della diagnosi, della classificazione, che sia nosografica o criminologica. Ma ne manca una, nel novero, una polizia di cui ho sentito molto poco parlare in questi giorni, perchè è più comodo fare loghi da passarsi su fb sui poliziotti/e cattivi/e, dal momento che è vero e assodato, la polizia sequestra, la polizia violenta, la polizia reprime. E’ così da sempre. Soprattutto le polizie funzionano come campi: domini forniti di una propria razionalità che definiscono le condizioni di visibilità del reale che catturano. Quindi anche come altrettanti spazi di cecità su ciò che risulti irriducibile a quelle equazioni di visibilità. Solo malati, solo criminali….Manca però, l’altra polizia, la polizia affettiva. Manca visibilmente nei discorsi e nei controdiscorsi sul caso di Padova. Si, qualche accenno alla famiglia materna, qualche accenno alla professione paterna- avvocato- quindi verosimilmente avvantaggiato nella causa per l’affidamento. Ma molto più moderati, scarni e sottotono rispetto agli strali contro le altre polizie.
Mi pare che questo bambino, prima che essere sequestrato dallo Stato, dalla polizia, dai giudici, dagli psichiatri, e ridotto a caso di alienazione parentale, sia un sequestrato della sua famiglia; per evocare Artaud, questo bambino è un suicidato della famiglia, di sua madre non meno che di suo padre.
La famiglia (che almeno in Occidente ha cessato di rispondere o ha cessato di rispondere solo al vecchio paradigma patriarcale) anche come famiglia mononucleare, affettiva, allargata non cessa di essere autoritaria. Anche quando non si presenti come istituzione ma assuma la forma “post-moderna” dell’istituto informale, fluido, alternativo. La famiglia non cessa di essere, malgrado tutto, sempre in relazione ambigua e profonda con la genealogia secolare che la collega al suo primo senso etimologico: familia – insieme dei famuli – dei famigli, cioè dei servi.
Persone cui, nella Roma antica, si ascriveva lo status giuridico-ontologico di beni mobili. Proprietà.
Sembrerà piccola cosa, ma è un segnale inquietante del nuovo autoritarismo familistico, e più spesso materno, la discreta quantità di madri sovente alternative che postano compulsivamente su Facebook le foto dei figli o delle figli minori, a volte anche parecchio minori, dagli 0 ai 10 anni. Anche qui, una veloce ricerca empirica mostra che si tratta appunto di madri nella maggior parte dei casi, e di figlie femmine. La femmina, si sa, è più bella e meglio si presta al pret-a-porter. Bea col cappellino di cotone ecologico – e giù 30 commenti – Troppo bella, o peggio, troppo Belle – perchè spesso le madri si espongono in autoscatti a due. Ha i tuoi occhi e i capelli del papà. Nello stesso tempo in cui si afferma pubblicamente una proprietà di cui si è fiere/i – oggi l’iscrizione nella genealogia parentale passa, perchè no, anche attraverso i new media – si inscrive il piccolo/piccola totalmente inconsapevole nel modo di riproduzione del narcisismo ipertrofico che, in certi usi, si esalta nel social-network. Troppo facile sarebbe accostare queste madri, spesso le più insospettabili – cultura almeno media, buon lavoro, moderne, emancipate e spesso progressiste quando non decisamente alternative o antagoniste – alle madri-coccodrillo di Lacan, che sempre uno psicanalista era, con la sua riduzione del desiderio da macchina produttiva, fabbrica reale di realtà vera a palcoscenico per una rappresentazione in cui il desiderio non è pienezza d’essere ma mancanza ad essere. Le madri-coccodrillo che tengono i piccoli tra i denti e li stritolano nella maternità. E’ comunque una buona metafora, se la si disancora da quel concetto vuoto di desiderio, che Deleuze e Guattari criticarono così efficacemente – l’Edipo come ritaglio, separazione di un privato dal sociale.
Perchè si parla poco dell’autoritarismo della famiglia, delle madri? Perchè ne parliamo così poco? Basta, per rispondere, sostenere che in quel genere di polizia siamo tutte implicate, in quanto tutte madri, figlie, sorelle o zie? Forse anche si. Se è vero, com’è vero, che in tempi di crisi facciamo, statisticamente, e alla lunga, più figli e non meno, allora forse è il caso di riprendere discorsi che non sono vecchi e restano urgenti. Il problema della normatività psichiatrica non si arresta alla grande contestazione degli anni ’70, all’Anti-Edipo, il lavoro non è concluso: resta solo il peggio del peggio, oggi. Pezzi di psicanalisi freudo-lacaniana – la spettralità, l’irrealtà del desiderio – pezzi di triangolazione edipica convivono con le nuove terapie e classificazioni del sintomo – il peggio dell’inconscio insieme al modello umano del comportamentismo – corpi senza anime su cui imprimere input variabili – o varianti biologiche dell’edipo- la psicosi che non si trasmette più attraverso il simbolico, nel romanzo familiare, ma nei geni e negli impulsi elettrici del cervello. Il risultato e il fine li vediamo: la normalizzazione ortopedica dell’individuo, la cancellazione di ogni motivo extra-individuale o extra-parentale, e dunque, politico, sociale, economico. Infine, il controllo. Allo stesso modo il problema della normatività della famiglia non finisce con gli anni ’70, l’emancipazione economica e giuridica della donna, l’accesso a una società dei consumi che accelera la disgregazione del vecchio nucleo familiare. Resta il problema, e l’enigma, soprattutto per chi cerchi forme di vita altre, dell’amore vissuto creativamente, come apertura e come liberazione piuttosto che condizionamento e costrizione, di una procreazione non proprietaria, e di modelli di relazione genitori/figli non imbrigliati da dipendenze intensificate dalle oggettive difficoltà a costruire percorsi autonomi nell’era della precarietà e dei contratti selvaggi. Non possiamo lasciare alle mani-invisibili del mercato il compito di deteritorializzare le relazioni. Non potranno, infine, che riterritorializzare intorno a nuove normatività: sindromi invece che psicosi, cannibalismi ed auto-cannibalismi iconici – dell’immagine riprodotta e postata all’infinito – invece che cannibalismi giuridici, proprietà mobiliari. Sul lavoro e nella vita liberata dal lavoro vedo anche donne che resistono come madri critiche, che si sforzano di esserlo malgrado le insidiose seduzioni piccolo-borghesi legate alla maternità come evento sociale.
Possiamo ancora riscrivere, insieme, una nuova etica libertaria dei nostri amori e dei nostri desideri.
X V.S.
Chiedo scusa se non ho compreso. In effetti ammetto che la condivisione di immagini di figli minori (spesso neonati) in maniera non ristretta a parenti e amici può comportare dei rischi (anche se fatta con le migliori intenzioni)..quest però dipende anche se si concede l’amicizia a chiunque o solo a chi si conosce di persona, o comunque a persone di cui ci si fida..ma questo sta alla decisione della persona
errata corrige: caro Paolo
Cara Paola, grazie del commento.
Mi sfugge però in quale parte del pezzo si parli di poliamore o si inciti alle relazioni poligame versus quelle monogame…???… nè tantomeno è presente una rimozione del conflitto in righe che vanno proprio in senso contrario…l’esempio della tendenza in atto nella scuola, con l’individuazione di macro-categorie, come i BES, in cui si associ l’handicap con la marginalità sociale ed economica dice proprio l’opposto, critica questa tendenza marcata ormai a rimuovere il conflitto o il dato critico da talune situazioni e condizioni per farne fattori di ritardo individuale, specifico e non collegato alla situazione sociale e d economica, che coinvolge invece tutti e non solo l’individuo e che chiamerebbe in causa anche la scuola, interrogandola come veicolo, molto spesso – le statistiche sono molto nette- di immobilismo sociale e approfondimento della diseguaglianza. Infine, più che di demonizzazione parlavo di problematizzazione dell’ovvio, del quotidiano: postare foto dei figli su fb, di maschi e di femmine, certo! anche questo viene scritto ( anche se, se hai voglia, puoi farti un giro più approfondito e vedrai che le modalità per i maschi e per le femmine cambiano). in modo non ristretto ai parenti ed amici, con i quali ci sarà certamente un bellissimo afflato alla condivisione, ma aperto a innuverevoli sconosciuti mi sembra appunto qualcosa di affatto differente da un mero desiderio di condivisione di una gioia…oppure dobbiamo pensare che i figli minori siano sempre per questo minorati, in nome dei quali prendere sempre e comunque decisioni, appunto perchè in stato di minorità , anche su cose così individuali come la cessione e la pubblicizzazione dell’immagine? Non so, chiedo, non ho risposte certe, ma , appunto me lo chiedo. Forse chiederselo suona immediatamente come demonizzante, ma è solo una domanda, forse vissuta con disagio proprio perchè viviamo in un’epoca in cui la rappresentazione di sè attraverso la propria immagine è diventata o sta diventanto così consueta che ci pare essere in atto da sempre……Sono queste le normalità che ritengo inquietanti, quelle che fanno vivere le cose come “dati di fatto”, ovvietà, e impediscono l’interrogativo critico ed autocritico, non certo quelle della coppia monogama, cui, ripeto , non si fa addirittura menzione!!
e non voglio negare violenze e sopraffazioni, ma mi ostino a credere che ci possa, ci debba essere dell’altro. Persino la gelosia che tra tutti i sentimenti è quello più a rischio di “degenerare” e di portare violenza, se non diventa un’ossessione, se è tenuta sotto controllo non fa danni
io non demonizzerei nè le madri che postano foto dei figli su facebook (postano foto pure dei figli maschi, comunque), non è vero che sia solo una cosa “proprietaria”, c’è la voglia di condividere la gioia, nè demonizzo la famiglia moderna che mi rifiuto di credere sia solo e sempre un luogo di violenze e nevrosi. Io nonostante tutto ci credo nelle relazioni monogame basate sulla fedeltà reciproca di due persone che si sono scelte e ogni giorno si scelgono, che possono essere fonte di felicità e non solo di sofferenze (e comunque non riesco a immaginare dei rapporti familiari e sentimentali completamente privi di conflitto e tensione, il conflitto non è sempre male basta saperlo risolvere, in alcuni casi è possibile, in altri no). Poi chi preferisce il poliamore ha tutto il diritto di sperimentarlo con chi condivide gli stessi valori..ma nessun modo di vivere, “tradizionale” o “alternativo” che sia, è a priori “meno libero” di un altro