dal Collettivo MeDeA di Torino
Dal 15 ottobre del 2010, data di presentazione al Consiglio Regionale del Piemonte del “Protocollo per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l’interruzione volontaria di gravidanza”, atto amministrativo meglio noto come Delibera Ferrero, dal nome della sua promotrice, Caterina Ferrero, ex assessore alla Sanità della Giunta di Roberto Cota, attualmente sotto processo per reati connessi ad irregolarità negli appalti legati alla fornitura di prodotti sanitari, ebbene, da quella data l’attività del collettivo Medea, mai attenuata la riflessione e l’attenzione rispetto al tema della salute delle donne e del necessario collegamento tra il nostro corpo e i servizi sociali e sanitari (che il disegno fosse ampio era del resto stato esplicitato dallo stesso Cota in campagna elettorale con la presentazione del suo programma denominato Patto per Vita e per la Famiglia, in cui si affrontava sì la questione dell’aborto, ma anche scuola, lavoro omosessualità, salute) si è fatta indubbiamente più densa: la necessità di informare capillarmente sul territorio di quanto stava avvenendo a livello legislativo, la voglia di creare le condizioni affinché fossero tante le donne a opporsi al gravissimo attacco al principio di autodeterminazione di sé che la Delibera conteneva, l’esigenza di riportare al centro delle riflessioni e delle pratiche politiche femministe, e non solo, il corpo evitando di farsi mettere in scacco dalle vicende del signor B., il bisogno di ritessere relazioni tra donne che si erano forse un po’ sfilacciate e atomizzate…tutto questo ci ha portate letteralmente in giro per il Piemonte: provincia per provincia abbiamo organizzato assemblee, abbiamo parlato con le donne, le più varie per età e percorsi politici, abbiamo discusso e organizzato azioni di controinformazione sulla Delibera Ferrero, ci siamo confrontante e abbiamo condiviso dubbi, criticità e anche perplessità rispetto all’urgenza di difendere una legge, la 194, e dei luoghi, i consultori, temi sui quali sentiamo di non avere affatto verità nette.
In occasione di uno di questi incontri abbiamo ricevuto un regalo, da parte di una compagna che si è presentata raccontandoci di aver partecipato al movimento delle donne degli anni 70 contro l’aborto clandestino e per i consultori autogestiti: un libro, dal titolo “Il consultorio, la donna protagonista” realizzato nel 1976, ad appena un anno dall’approvazione della legge nazionale 405 di istituzione dei consultori pubblici.
Ed ecco che domande, scambio reciproco di idee e dubbi, discussioni si sono fatte quasi frenetiche: noi, che frequentiamo i consultori e che, a volte, ci lavoriamo, possiamo davvero affermare che in essi la donna è protagonista? Sono i luoghi della presa di coscienza di sé e del proprio corpo, come era negli obiettivi del movimento delle donne? Sono i punti di riferimento e di aggregazione delle donne? In essi le donne hanno modo e tempi e strumenti per affermare consapevolmente la propria sessualità, il proprio desiderio di maternità, o no? Rappresentano per le donne spazi di informazione, formazione e assistenza?
Insomma, in una frase provocatoriamente netta: che cosa sono questi consultori che dobbiamo difendere?
Non abbiamo voluto dare noi delle risposte a questi interrogativi, abbiamo deciso di far parlare le donne degli anni 2000 e siamo andate a cercarle, e a intervistarle, davanti alle fabbriche, davanti alle università, nei mercati di quartiere e davanti ai call- center: non avevamo come obiettivo esclusivo la Delibera Ferrero, di cui comunque abbiamo potuto notare quanto poco si sapesse, ma piuttosto scoprire quale fosse la percezione di sé, del proprio corpo e del consultorio che le donne avevano.
Vogliamo riportare le conclusioni che abbiamo tratto dalle interviste perché riteniamo costituiscano una traccia utilissima non solo per il lavoro, e il grande impegno, che ci attendono, ma anche per avviare una riflessione doverosa sulle nostre responsabilità e sui nostri errori, se ci sono, o assenze/mancanze, se preferiamo definirle così, come donne, femministe, compagne, dai e nei consultori.
Innanzi tutto lo scarso interesse per la questione in sé, vale a dire scarsa conoscenza dell’esistenza dei consultori e delle loro attività, disinteresse che diventa drammatico quando a parlare sono le ragazze o le donne più giovani: il dato dello scarto generazionale è fondamentale, perché quando le donne intervistate dichiaravano di aver qualche esperienza dei consultori, sia pur minima, ed erano convinte della loro importanza sul territorio immediatamente denunciavano la loro appartenenza, per età o convinzione personale, alla generazione delle lotte,
in fabbrica o nel movimento studentesco o femminista, mentre per le più giovani, lo sottolineiamo, questo filo rosso si è irrimediabilmente spezzato.
Secondo dato, l’individuazione esclusiva del consultorio come luogo cui ci si rivolge quando si ha un problema, che non si vuol far sapere, o come luogo cui accedono per lo più donne povere, straniere o disperate: pensare il consultorio come “il posto dove si va ad abortire” è una convinzione ricorrente delle intervistate e fa rabbrividire perché è lo stesso linguaggio e la stessa correlazione messi in campo dal Movimento per la Vita.
Terzo elemento, il corpo, la propria salute, nella sua interezza e non come insieme distinto e parcellizzato di pezzi ha perso totalmente la sua centralità, non solo politica e sociale, o economica!, ma anche personale e privata, nei discorsi delle donne che abbiamo intercettato: non solo non si conoscono, soprattutto le giovani del proprio corpo non sanno quasi nulla, ma hanno ormai assunto la visione dominante che equipara lo star bene e il prendersi cura di sé con la bellezza…se la cura è diventata merce, la salute è diventata essere in forma.
Questo ha delle conseguenze plateali che si riflettono sul modo di costruire il rapporto con la medicina e i medici, per cui non solo si accettano supinamente diagnosi e decisioni, ma si pretende semplicemente il servizio senza mettere nulla in discussione, in primis il rapporto medico/ donna, che avrebbe dovuto essere il cardine del consultorio come inteso da quei gruppi di donne che dettero vita ai consultori autogestiti: la donna vuole la pastiglia, la visita, il pap- test, la pillola… tutto per frammenti, in fretta e che faccia subito effetto!
E, infine, l’elemento forse più sconfortante, quello che meglio definisce anche la portata delle nostre responsabilità, vale a dire la compiuta eguaglianza tra consultorio pubblico gratuito quindi di scarso valore professionale e ginecologo privato a pagamento quindi migliore.
Su questo terreno la nostra riflessione, a partire dalle interviste raccolte, continua e non può che essere così perché si tratta di un nodo centrale per capire non solo la Delibera Ferrero in Piemonte, ma anche tutto il previsto assetto del sistema sociosanitario in Italia, proprio a partire dal corpo e dalla salute delle donne, che come sappiamo sono il campo di esperimenti specifici che vanno poi a estendersi in generale: la cura è un affare di grande interesse economico sia per il pubblico, che fa cassa, sia per il privato, che vi entra massicciamente con lo schema di sempre, privatizzare i profitti e lasciar pubbliche le perdite.
Per chi non può pagare, si rimanda al volontariato, meglio se cattolico.
Vogliamo capire come è stato possibile che, nella percezione delle donne comuni, il consultorio abbia fallito proprio nel suo obiettivo principale, nella costruzione di quel rapporto intimo e particolare tra donne corpo e ginecologa/o: le intervistate, quasi in toto, sottolineavano come il ricorso al ginecologo privato fosse l’unico modo per rispondere ad una loro aspettativa essenziale, appunto un rapporto costante, costruito e soprattutto regolare nel tempo.
E su questo, ci spostiamo dentro i consultori e torniamo, schematicamente, ad alcuni passaggi chiave delle nostre discussioni.
Abbiamo la fortuna, e la responsabilità, di condividere con chi nei consultori ci lavora da anni con abnegazione e passione, ginecologhe ostetriche e operatrici, una serie di riflessioni sul campo e dall’interno e dato che siamo convinte si tratti di temi, e di criticità, abbastanza comuni e trasversali alla situazione dei consultori nelle diverse regioni intervenute oggi, li esaminiamo per brevi cenni ma consapevoli del valore politico di quanto esaminato: non è affatto un caso che i consultori siano diventati i luoghi della maternità e dell’infanzia, a partire dal nome!, e non più i luoghi della donna e per la donna.
Edifici spesso bisognosi di manutenzione, locali poco accoglienti, piccoli, scarsamente identificabili anche dall’esterno. Personale ridotto, turn- over esasperato, contrazione delle attività e dei tempi di ascolto, fino alla drammatica riduzione dei campi di intervento: il consultorio è diventato un ambulatorio in cui sono i servizi connessi alla gravidanza ad essere erogati in prevalenza.
Ridurli esclusivamente a luoghi in cui autorizzare, sotto strettissimo controllo, anzi schedatura, le interruzioni volontarie di gravidanza, come vorrebbero le proposte di legge in Piemonte, Lazio e altre regioni, è solo la conseguenza più ovvia di un quadro come quello descritto: si è perso il senso della complessità del corpo femminile, la cui vita è fatta di momenti diversi ma strettamente collegati e di sicuro non può essere ridotta a fare o non fare figli.
Noi sentiamo l’esigenza di provare almeno a ridefinire un desiderio, almeno provare a ripensare i consultori, difendendoli perché sappiamo bene che ogni tentativo di modifica e riforma in ambito sociale, sanitario ed economico per le donne ha ricadute pesantissime: proviamo a ricomporre bisogni e pratiche, sessualità contraccezione saperi cura, ricuciamo il rapporto tra corpo e lavoro, tra corpo e ritmi di vita, tra corpo e testa… ci siamo rese conto, dalle interviste, che c’è grande difficoltà a sentire con passione una mobilitazione di principio sull’autodeterminazione, sull’aborto, sui servizi perché l’intreccio tra bisogni, realtà e capacità di sognare è saltato.
E mentre noi componevamo, con grande fatica e pure con un certo sconforto, questo quadro impietoso, la destra fascista (non eletta!) del Consiglio Regionale del Piemonte presentava, in data 14 settembre 2011, una proposta di legge, la numero 160, sui consultori che già dal titolo, e dalla relazione di accompagnamento, si incaricava di sgombrare il campo da ogni possibili dubbi: Norme e criteri per la programmazione, gestione e controllo dei servizi consultori ali.
Occorre fare due precisazioni subito: la prima, dei consultori nel testo non vi è traccia se non quando si tratta di definirne le funzioni tecniche, la seconda, l’impianto generale è il medesimo della Delibera Ferrero, quindi sussidiarietà tra pubblico e privato, ingresso massiccio dei volontari del Movimento per la Vita, schedatura delle donne che intendono interrompere la gravidanza, de qualificazione del personale consultoriale.
Ma c’è di più. C’è di più perché noi per prime abbiamo deciso di non farci trascinare in una sorta di guerra privata tra femministe e Movimento per la Vita, o tra donne e politici fascio- leghisti, di non farci schiacciare sulla difesa e basta della legge 194 e di non accettare MAI di essere costrette, a partire dal linguaggio, ad una equiparazione tra donne e morte, o tra donna e incubatrice, se va bene…
Questo è un attacco che inizia col prendere di mira le donne limitandone la capacità di autodeterminare le proprie scelte in un ambito fondamentale come quello della riproduzione, poi ne ridisegna il ruolo nella produzione, per cui che faccia o non faccia figli il suo destino è comunque la precarietà per quanto riguarda il lavoro extradomestico e la somministrazione di welfare gratuito in famiglia e in casa, e infine arriva al bersaglio ultimo: azzerare, attraverso modifiche e interventi legislativi, prima tutto il corpus di leggi che, bene o male, sono il frutto di lotte e mobilitazioni che dalle fabbriche hanno interessato famiglia, casa, sanità, istruzione e comportamenti di vita di uomini e donne, e così ridefinire la società riportandola, secondo la nostra riflessione, praticamente agli anni ’50.
La donna a casa o a far pochi lavori ben definiti, gli uomini in fabbrica, nessuna tutela, università solo per ricchi, sanità a pagamento, la casa un bene da conquistarsi e difendere a caro prezzo, il tempo libero un lusso per pochi… e il paradosso è che questa stessa società, però, respira e vive tempi i cui codici sono altri, primo tra tutti la “crescita”, ossia produrre e consumare in maniera illimitata.
Se leggiamo la proposta di legge regionale n. 160, o il famoso/famigerato Libro Bianco dell’ex ministro Sacconi, o le norme della manovra “Salva Italia” e relativi collegati, ci rendiamo contro senza ombra di dubbio del collegamento – non più accantonabile in primis da chi dai movimenti ai partiti ai sindacati affronta il discorso esclusivamente nell’ottica della Produzione della Crisi della Finanza (volutamente in maiuscolo) e dimentica i ruoli la riproduzione il corpo (volutamente in minuscolo) – tra controllo del corpo delle donne, funzione sociale ed economica della maternità e gestione della società attraverso il riferimento alla famiglia.
Che, in ultima istanza, gli strumenti praticati per raggiungere questi obiettivi stiano nelle mani di personaggi come Carlo Casini, che continua da decenni a chiamare le donne assassine, come i volontari del Movimento per la Vita, che vaneggiano di diritti del concepito, o come i fascisti di casa nostra che vorrebbero sottoporre le donne che si rivolgono ai consultori a periodici momenti di verifica… ebbene, questo deve spronarci ancor più nella direzione di una lotta sì di difesa ma non circoscritta: soprattutto, cominciamo noi e a partire da noi, a mettere noi stesse al centro di qualsiasi pensiero e di ogni pratica, insieme.
Collettivo Medea Torino