Riceviamo da una nostra lettrice e pubblichiamo.
Lui li chiamava così. Gli infami che gli avevano strappato i volantini dello sciopero dalle mani, che lo avevano spiato e poi denunciato al padrone.
Lui stava al nord, negli anni 70, un altro secolo, una vita fa.
Oggi lui non riesce a crederci, gli pare, ad usare un termine che non gli appartiene, peggio di una bestemmia, insomma, non riesce proprio a credere a quello che ha visto, e dovendoci credere per forza, lo ha visto!, forse deve ammettere di essere più incazzato perché si rende conto che è proprio la fine, per lo meno la fine di quello in cui credeva a vent’anni e che ha continuato a credere anche dopo, per decenni, fino ed oltre Genova, nel 2001: noi, da una parte, loro dall’altra.
E invece…gli infami nel corteo, che dal corteo si trasferiscono poi sui social network, la delazione, le foto con il circoletto rosso, il nome, come si dice, “taggato” in automatico per un numero infinito di volte e di contatti… e si ricorda quel questionario, conosci il tuo vicino?, che invitava a denunciare il brigatista della porta accanto. Così come ricorda i compagni ammazzati. Il mitra puntato addosso all’uscita da un cinema. Kossiga che spiegava, alla Kissinger, che bisognava, se non proprio massacrarli tutti, almeno seppellirli per sempre in galera.
“Lui” queste cose me le ha raccontate.
È il regista occulto del mio scendere in piazza, la prima volta proprio a Genova nel 2001 fino a Roma, 15 ottobre 2011, dieci anni dopo la morte di Carlo, le torture di Bolzaneto, la scuola Diaz: mi tiene d’occhio durante i cortei, mi indica con gli occhi le eventuali vie di fuga, mi conserva, per leggerli dopo, tutti i volantini, ma proprio tutti, che vengono distribuiti in piazza.
Potrei dire, a questo punto, che “lui” è mio padre, ma importa?
Quello che conta davvero è che mi ha indicato la strada che dritta si snoda tra la ragione e il tradimento e oggi, anche se può sembrare che “loro” siano tra “noi”, io so che come allora c’è una sola parola: infami.
G.