Lo hanno chiamato laboratorio tessile, opificio, maglieria. Ma noi sapevamo: era un seminterrato o un sottoscala o una cantina.
Hanno detto che sotto le macerie c’erano delle persone. Ma noi sapevamo: erano donne.
Hanno scritto che erano operaie, lavoratrici. Ma noi sapevamo: tutto il giorno chine sulle macchine, sempre lo stesso movimento, luce artificiale, nessun diritto, nessun contratto, tre, quattro, pochi euro l’ora.
Matilde, Giovanna, Antonella e Tina.
Quattro nomi, quattro vite, quattro corpi straziati in questo che è l’8 marzo degli anni 2000, perché le donne continuano a tagliare la stoffa, a cucire, a confezionare abiti e maglie e camice come le operaie di New York in quel 25 marzo del 1911, perché le donne continuano a lavorare in nero, come le immigrate italiane della Triangle Shirtwaist Company, perché le donne continuano a morire, oggi come allora, dal momento che per produrre merci non occorre contare le crepe sui muri di un palazzo fatiscente nel centro storico di una cittadina del meridione d’Italia oppure tenere aperte le porte di stanzoni destinati alle fiamme in una fabbrica tessile dell’America del secolo scorso.
Matilde, Giovanna, Antonella e Tina: donne, donne intorno ai trent’anni, donne del sud.
I tre requisiti necessari di una precarietà inevitabile, a leggere qualsiasi dato, studio o ricerca, dall’Istat alla Cgil, da Confindustria al Fondo Monetario Internazionale: genere, età, territorio.
Una precarietà che rende invisibili, che può uccidere.
Eccoli, i numeri delle invisibili:
– più del 50% delle ragazze tra i 15 e i 24 anni, più del 25% delle donne tra i 25 e i 34 anni e più del 41% delle donne tra i 35 e i 54 anni svolgono un lavoro cosiddetto flessibile
– le donne costituiscono il 56% del totale dei lavoratori precari e i tempi di stabilizzazione sono doppi rispetto a quelli degli uomini a fronte di retribuzioni inferiori di circa un quarto, a parità di condizioni
– il 27 % delle donne che lavorano lascia il posto dopo la prima gravidanza, il 15% non rientra dopo il secondo figlio
– il 48, 9% delle donne nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, rispetto all’insieme della popolazione della stessa età, non cerca più lavoro
– le donne sono impiegate soprattutto nei settori in cui i salari sono inferiori e il lavoro precario è sempre più diffuso: sanità, terziario, pubblica amministrazione, tessile.
Si potrebbe continuare, ma vorremmo che dai numeri si levassero idealmente le voci, le storie, le vite di Matilde, Giovanna, Antonella e Tina a pretendere attenzione, a imporre una riflessione, ad aiutare a svelare un inganno che si è posto ormai come dato assoluto: le donne non pagano il prezzo più alto della crisi, semplicemente l’invisibilità e la precarietà del lavoro delle donne, fuori e dentro casa, sono elementi strutturali del capitalismo.
Una donna che ha un’occupazione fuori casa conduce con sé nel lavoro i propri tempi, le diverse fasi del proprio corpo e dei propri desideri, i propri impegni, gli obblighi ma anche la voglia di libertà e indipendenza… ebbene, questa donna vuole servizi, che siano accessibili, efficienti, gratuiti, pubblici.
Una donna che ha un’occupazione fuori casa è sempre una donna con un doppio carico di lavoro… ebbene, questa donna vuole che il lavoro domestico sia condiviso, socializzato, magari anche valorizzato e retribuito.
… ebbene, crisi o no, le dinamiche del capitalismo globalizzato si muovono in direzione diversa: la riproduzione come obbligo, e principale pretesto per l’esclusione delle donne dal mercato del lavoro; la cura di figli, anziani, famiglia come destino di marginalizzazione; i ruoli del maschile e del femminile non solo rigidamente fissati ma anche gerarchizzati; il lavoro extra domestico sempre più precario, se non inaccessibile, in modo da accentuare, e monetizzare, il tradizionale doppio impegno delle donne.
Non serve solo che una donna guadagni, consumi e produca, ma soprattutto serve una donna Welfare.
Se è anche come Matilde, Giovanna, Antonella, Tina, ancor meglio: doppio profitto.
Ma proprio per Matilde, Giovanna, Antonella, Tina pretendiamo che la discriminante di genere venga assunta definitivamente e riconosciuta come imprescindibile, dai movimenti, dai sindacati, dai lavoratori e dalle lavoratrici, dagli studenti e dalle studentesse, perché siamo convinte che nessuna lotta, ignorandola, possa davvero definirsi tale.
le donne muoiono perchè donne, si chiama sempre e comunque femminicidio. non si può più ignorare.
“- il 48, 9% delle donne nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, rispetto all’insieme della popolazione della stessa età, non cerca più lavoro”
l’alta percentuale (in calabria e al sud altissima) di donne che secondo le statistiche sono “donne che rinunciano prematuramente e volontariamente al lavoro” nasconde chiaramente il sommerso, anche se una piccola parte percentuale sicuramente si sarà depressa nella ricerca di un lavoro che non si trova o viene fagocitata dal sistema-famiglia che ti obbliga ad occuparti di nonne-mamme-figli (esiste infatti una percentuale di immigrazione femminile straniera pi’u bassa al sud rispetto che al nord proprio perchè al sud c’è meno richiesta, sono le donne nate in italia ad occuparsi di casa-famiglia-bambini-nonni, perchè non c’è lavoro e non ci sono soldi per pagare un’altra donna che ci “sollevi” ).