Da circa un anno alcune di noi collaborano con DiZona Vanchiglia, un giornale gratuito curato dal Comitato di Quartiere Vanchiglia. Spesso è capitato che alcuni dei pezzi usciti sul blog siano stati ripresi sul DiZona, altre volte, come questa, il gruppo di persone che si occupa del giornale, ci ha chiesto un intervento specifico da poter pubblicare per il numero che uscirà nei prossimi giorni. Sul sito del Comitato potete già trovare la versione online dell’edizione di giugno 2011. Qui invece vi proponiamo solo l’articolo a cui ha contribuito una di noi, una sorta di dialogo e di confronto a distanza con una donna ormai nonna che racconta la sua esperienza femminista. Buona lettura!
Sono una nonna. Vecchia, quindi, ma non vecchissima. Nell’autogestione ci sono nata, anche se, pensando alla mia infanzia, mi sembra di venire dal Medioevo. Sono cresciuta in campagna, nelle dolci colline di Langa, ora ricche e famose per i vini DOC e le trattorie tipiche, allora povere, così scoscese che ci si rompeva la schiena a lavorare la terra, così aride che d’estate i pozzi si prosciugavano e si andava ad attingere l’acqua alle fonti a valle.
Ogni borgata era una piccola comunità solidale totalmente autosufficiente e autogestita. Il cibo non mancava: cavoli, cipolle, patate, fagioli e ceci d’inverno, verdure ed erbe selvatiche d’estate. Tutti allevavano animali, di cui si utilizzava tutto (ricordo i cuscini e i piumini di penne di gallina, le pelli dei conigli vendute allo straccivendolo…).
C’era un solo medico per dieci o più paesi, nessuna assistenza sanitaria gratuita. Il poco denaro in circolazione si usava solo in casi estremi.
Le donne erano delle vere “curandere”: conoscevano ogni erba, frutto e radice e preparavono ungenti, impiastri e decotti per ogni evenienza. Sapevano anche lavorare a maglia – dalle calze ai maglioni- cucire, rammendare e rattoppare, perchè nulla veniva buttato: se necessario lo si trasformava in qualcosa di diverso, da utilizzare ancora. Ancora oggi, davanti ad un bidone della spazzatura, mi trovo a domandarmi: potrebbe ancora servire?
Sperimentai poi un altro tipo di autogestione, in università, dove arrivai nel 1968 durante l’occupazione. Scoprii subito cosa significasse studiare e apprendere: ricerca, lavoro di gruppo, confronti, critiche spietate; scoprii soprattutto che il “sapere” non è un privilegio per pochi o a loro riservato. Tra libri, ciclostilati, dibattiti, assemblee, teorie nuove, posizioni intellettuali contrapposte, mi girava un po’ la testa!
Nella contestazione (“la scuola dei padroni si abbatte e non si cambia!”) le ragazze – “donne”, come ci chiamammo da allora -, si resero conto di subire l’oppressione più pesante da parte del potere maschile, che ne controllava corpi e menti.
Si formarono gruppi femminili di autocoscienza, che praticavano vere e proprie sedute psicanalitiche, talvolta dolorose, ma sempre profique. Trovarci significava esaminarci, metterci in discussione, rincorrere le nostre paure, la rabbia repressa, capire che il sentire e i problemi individuali erano comuni a tutte. Scoprimmo che non eravamo padrone del nostro corpo perchè non lo conoscevamo e che per questo eravamo in balia di medici arroganti che decidevano della nostra sessualità, spesso spesso ed imponendoci cure e scelte che non ci appartenevano.
Il dramma delle gravidanze indesiderate e la tragedia dell’aborto clandestino, condannato dallo stato come reato e dalla chiesa come peccato, praticato in condizioni disumane e che provocava la morte di migliaia di donne, stimolò la nascita dei gruppi di autocura. Grazie ad un corposo volume redatto da un collettivo femmista americano (“Noi e il nostro corpo”) imparammo l’autovisita, sperimentammo cure e metodi per prevenire disturbi e malattie. Conoscere noi stesse significava poter scegliere il mezzo anticoncezionale più adatto ad ognuna ed essere più libere. Capimmo che era possibile prevenire molte malattie e disagi ascoltandi i segnali del corpo e ci rendemmo conto che i medici ci sottoponevano troppo spesso ad accertamenti dolorosi, invasivi, pericolosi e talvolta non necessari. E quanti medicinali avevano l’unico scopo di arricchire le case farmaceutiche!
Gli anni sono corsi via velocemente, portando crisi, recessioni, scandali. Spesso mi domando quand’è che si è rotto quel filo, quando abbiamo ricominciato ad essere sudditi di un capitalismo sempre più feroce, che ci ha trasfomrato in acritici ed ignoranti consumatori di prodotti inutili, se non dannosi, che stanno distruggendo noi e il mondo in cui viviamo.
Ci fanno credere che siamo brutte e che dobbiamo “rifarci” il corpo, tingerci i capelli, dipingerci, acconciarci come piace a lor singnori. Ci fanno credere che siamo malate, o potenzialmente tali, e che quindi abbiamo bisogno di pillole, pomate, iniezioni….Aiuto! Riprendiamo ad autogestire almeno il nostro corpo e la nostra mente!
Iaia
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Cara Iaia, sei una nonna, ma le tue parole per me sono quelle di una sorella, in cui riconoscermi, identificarmi, guardarmi allo specchio. Ho 34 anni e sono cresciuta in un contesto completamente diverso dal tuo, nel tempo dei falsi miti e nello spazio del reflusso, del disimpegno a tutti i costi. Sono nata in una provincia ricca e fortemente classista, che si è fatta divorare dal consumismo degli Anni Ottanta. Non una comunità, ma un gruppo di individui soli, in perenne competizione, impegnati nella costruzione della propria immagine esteriore da ostentare ad ogni occasione, attratti e sedotti da un immaginario televisivo che li voleva sempre in forma, sempre al top, ignari di rincorrere la propria autodistruzione mentale, relazionale, affettiva…
Sono nata altrove, eppure sei mia sorella, perché nelle tue scelte, nelle tue strade ci sono anche io.
Come sia stato possibile uscire da quel pantano, non lo so bene nemmeno io. Eppure è successo e ho, abbiamo, ritrovato un filo di ricongiungimento con tutto quel mondo che, nonostante fosse dietro l’angolo, per noi non esisteva proprio più. Saranno stati gli incontri fortunati con altre donne più mature (e autodeterminate, oggi le posso definire così) o forse quel senso di ingiustizia che percepivo…un senso di ingiustizia e di oppressione vissuto da me e dai miei simili, senza distinzioni, che pian piano ha iniziato ad emergere. Le differenze di classe, già inconsapevolmente sperimentate alle scuole elementari, e le differenze di genere, così spesso negate, nascoste, eluse, anche quando ti si presentano con la violenza di un cazzotto che ti arriva dritto in faccia perché qualcuno dice di amarti troppo.
Differenze che ho imparato a riconoscere e con orgoglio a rivendicare come parte della mia storia, come segni inscritti sul mio corpo. Da lì tutto è partito, tutto è partito da me. Un modo di pensare e di agire che non mi ha più abbandonato, guidandomi nella mia vita personale e politica, di compagna e di femminista, che metto in corsivo per evidenziare come oggi per molti/e sia una parola desueta, di cui quasi vergognarsi. Per me rimane una parola che mi ha reso felice, perché mi ha indicato la via della consapevolezza e della coscienza.
“Noi e il nostro corpo” poi è stata una rivelazione, una scoperta, una mappa del tesoro. Una ricerca solitaria, poi finalmente condivisa con altre donne, compagne, sorelle. E quando ti accorgi, perché insieme trovi il coraggio di parlarne, che i tuoi problemi sono i problemi di tutte, arriva la svolta e ti cambia la vita.
Il corpo, questo sconosciuto… cosa significa imparare a conoscerlo, decidere di riprenderselo, scegliere come gestirselo. Perché il corpo delle donne è il luogo pubblico per eccellenza. Sembra che tutti vogliano dire la propria, che sentano questo bisogno irrefrenabile di insegnarci come usarlo, agghindarlo, nasconderlo, esibirlo, curarlo. Gli uomini, i padri, i fratelli, i mariti. La Chiesa e i suoi preti. I medici con i loro rimedi, le loro pillole, il loro potere. La politica dei partiti che si fronteggiano a suon di attacchi al diritto di autodeterminazione delle donne. Una volta è l’aborto, poi la sessualità, di nuovo la maternità, e ancora la violenza di genere…
Tu ti chiedi perché si è rotto quel filo…Qualche idea ce l’avrei: più d’una e sarebbe troppolungo parlarne ora. Ti posso però dire che io sto cercando di ricucirlo con tutte le mie forze. E con me ci sono molte altre donne. C’è ancora tanta strada da fare, tante lotte da organizzare. Ma sono certa (e ci voglio davvero credere) che un giorno uomini e donne comprenderanno che senza la nostra liberazione, non ci sarà mai la rivoluzione e il cambiamento che in tanti desideriamo.
Un abbraccio di sorellanza.
Chiara