Note sulla Giornata nazionale degli stati vegetativi, 9 febbraio 2011
Notte poi partorì l’odioso Moros e Ker nera
E Morte (Thanatos), generò Sonno, generò la stirpe dei Sogni;
per secondo poi Biasimo e Sventura dolorosa
non giacendo con alcuno li generò la dea Notte oscura….
Esiodo, Teogonia, vv. 211-213
Per il 9 febbraio 2011 il governo, con il contributo decisivo di Eugenia Roccella, sottosegretario alla Salute ed ex-radicale, ha indetto una giornata “dedicata” alle persone in Stato Vegetativo Permanente ed alle loro famiglie. La ricorrenza vorrebbe macabramente – è il giorno dell’esecuzione delle volontà di Eluana Englaro – colpevolizzare tutti coloro, malati e famiglie, che chiedono di poter liberamente decidere quando e come mettere fine alle proprie sofferenze. Ma offende anche tutti coloro che invece intendono continuare le cure, che sanno meglio di chiunque che le politiche sociali di assistenza, in questo paese, diventano sempre più carenti e che ci vorrebbe ben altro che un “giorno della memoria”.
C’è stata una lunga età, nella storia dell’Occidente, che ha conosciuto l’ impero esclusivo del principio religioso dell’indisponibilità della vita: dettava leggi alla politica, prescriveva comportamenti sociali alla donne ed agli uomini, produceva coscienze e corpi docili. Non che siano mancati, nei secoli in cui Dio si incarnava nella Legge, nello Stato, nel Tribunale, strenui sostenitori del diritto di disporre liberamente della propria vita, bastino i casi illustri dei filosofi inglesi Francesco Bacone e David Hume – autore, il secondo, di un trattato Sul Suicidio uscito postumo ed anonimo nell’Inghilterra del XVIII secolo, quando il suicidio era reato. Tuttavia prevaleva indiscussa l’idea di una vita “per grazia ricevuta” e dunque mai del tutto e gratuitamente propria, se è vero che non c’è dono che non impegni il beneficiario in una qualche forma di restituzione (M. Mauss, Saggio sul dono). Ma non senza tortuose contraddizioni si è fatta strada nella storia un’altra ragione: quella dell’autodeterminazione.
Siamo usciti dallo “stato di minorità” di cui parlava Kant spiegando Che cos’è l’illuminismo, quando l’auto-nomia, come capacità di darsi le leggi da sé, si è imposta quale principio fondativo della vita umana, omnes et singulatim, delle masse e delle collettività come degli individui. Prese corpo nel politico, sostituendo al governo per diritto divino la volontà generale quale unica fonte di legittimazione dal basso, poi nel sociale, con le lotte dei lavoratori che scoprirono per tutti, dietro al mito di uno sviluppo economico all’infinito un processo di valorizzazione del capitale fondato sull’esclusione all’infinito dei più. Ma soltanto le lotte delle donne – un quinto stato di assoggettate persino agli assoggettati – dal diritto di voto a quello per il divorzio e soprattutto per l’aborto, sicuro e gratuito, hanno ricordato, persino ai movimenti politici che si volevano più radicali, che l’ultima istanza dell’emancipazione collettiva è l’autodeterminazione degli individui, che l’autodeterminazione politica del corpo sociale può fondarsi solo sulla piena autonomia dei singoli.
In particolare con la lotta per l’aborto e a partire dalla sua specificità, le donne hanno contribuito ad estendere ad ogni questione morale, in un modo minoritario e tuttavia definitivo ed inobliabile, una concezione intrinsecamente conflittuale e contraddittoria – non semplice – dell’autodeterminazione, che non è mai il risultato di una dialettica schematica di ragione e di torto. Al contrario, la pienezza e l’autonomia della scelta – ragion d’essere dell’autodeterminazione – non eliminano mai la compresenza di ragioni ed interessi discordanti ed anzi ogni scelta è tale solo in virtù del suo fronteggiare continuamente la possibilità della scelta opposta: così il diritto ad abortire, che si fonda sull’affermazione necessaria del prevalente interesse della donna sulle “ragioni del nascituro”.
Esattamente la stessa complessità, non semplificabile attraverso qualsivoglia diritto-a, è alla base delle scelte morali sul fine vita, sull’eutanasia, sul rifiuto dei mezzi straordinari, ma anche ordinari, per prolungare l’esistenza biologica di chi si trovi in Stato Vegetativo Permanente (PVS). Non è questo lo spazio adatto ad una discussione delle verità scientifiche in materia. Ma al di là delle polemiche sul quando, clinicamente, si è morti, sul carattere processuale o puntiforme della morte, al di là delle divisioni tra chi identifica l’intera vita con il funzionamento della corteccia cerebrale (morte corticale) o del tronco encefalico, la vera questione è in che misura la nostra vita ci sia disponibile. Chi debba decidere per noi se e quando essere madri, se e quando porre fine alla nostra esistenza (sono questioni indissociabili).
Che si sia liberali sostenitori della democrazia come migliore fra i peggiori sistemi di governo o convinti critici delle diseguaglianze sostanziali su cui l’eguaglianza formale democratica si fonderebbe, occultandole, si dovrà riconoscere che il motore di ogni momento storico – persino del Concilio Vaticano II – di allargamento ( anche se sempre contraddittorio) delle condizioni sociali, economiche, politiche e finanche religiose della vivibilità della vita umana è stato il principio di autodeterminazione in una qualche sua forma. Una vita più vivibile non è una vita più facile: si tratta di scegliere, di farsi carico di sé, e di non scegliere mai una volta per tutte, scavalcando la complessità dell’esistenza e appellandosi a principi infinitamente trascendenti le condizioni di una vita pienamente umana e perciò finita.
Abortire gratuitamente perciò non ha reso la vita più facile, solo più vivibile. Poter scegliere se, come e quando porre fine alla propria vita non la renderebbe più semplice. Solo più vivibile. C’è un nodo di crudeltà, cioè di cruda realtà, nella finitezza della vita umana: con la sua imminenza necessaria, la morte è inevitabile e perciò, sotto questo aspetto, ci è in-disponibile. Vale per tutti, anche per chi crede che in altri spazi e tempi, in altre forme, continuerà ad essere. Tutto ciò di cui possiamo disporre è la vita in questa forma, qui ed ora, in questa carne e in questo spirito, anima o neuroni. Si potrà replicare a queste argomentazioni che ci sarebbero molte altre ragioni valide, propriamente umanitarie e forse più immediate, per rivendicare il diritto all’autodeterminazione del fine vita; che basterebbe forse denunciare la volgarità disumana degli attacchi dei gruppi pro-vita e dei loro portavoce in Parlamento alla famiglia Englaro quando, dopo traversie che parevano interminabili, ottenne la sentenza che garantiva il riconoscimento e l’applicazione delle volontà della figlia Eluana.
Tuttavia – credo – è solo ricordando il tortuoso percorso dell’autodeterminazione nella storia, e tutte le sue molteplici filiazioni, che la si può dispiegare pienamente come diritto a disporre in tutta autonomia della propria vita (con la v minuscola, dunque umana) contro una antistorica Vita maiuscola, un “Dio” cattivo, al di là di noi, indifferente al brulichio composito delle vite, sempre altrove, in un iperuranio che è materia di fede e mai, appunto, di vita. Per questo, il 9 febbraio 2011, ci faremo sentire anche noi, contro chi ci vorrebbe incapaci di scegliere, sempre impreparat* a disporre dei nostri corpi e delle nostre vite. Contro la semplicità fittizia dei principi assoluti, per la complessità faticosa della scelta.
Articolo fenomenale, grazie. Avevo sempre pensato l’aborto e il fine vita come due questioni divise, anche se speculari, invece ponendo il focus sull’autodeterminazione hai ragione, sono indissociabili. Geograficamente siamo lontane ma per il 9 febbraio pensate che potremmo concordare qualcosa da fare assieme? Perlomeno nel virtuale. Attivare un mail bombing congiunto ad Eugenia Rocella e/o pubblicare lo stesso contenuto nei rispettivi blog… passi piccoli ma pur sempre passi. Intanto grazie e ciao.