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Il filo rosso sangue che ci unisce. Lettera di Gabriela dal carcere

Quello che segue è un estratto della lettera che Gabriela (detenuta dal 26 gennaio nell’ambito dell’inchiesta contro i no tav) ha scritto a suo zio dal carcere di Torino. Può sembrare un po’ strano rendere pubblica una lettera così “privata”, ma abbiamo deciso di diffonderla (ovviamente con il consenso di Gabri) perché le questioni che solleva, seppur “personali”, ci sembrano tutt’altro che “private”. In questa lettera infatti, ancor più che nei soliti comunicati, emergono limpide le ragioni, o meglio i sentimenti, che stanno alla base della scelta di schierarsi a fianco del popolo no tav, e soprattutto la continuità con le battaglie di chi ci ha preceduto, in particolare con la lotta partigiana, tradita, incompiuta e con la quale questa lettera ribadisce il filo rosso, rosso sangue, che ci unisce.

«Ma io vorrei morire stasera, e che tutti voi moriste col viso nella paglia marcia, se dovessi un giorno pensare che tutto questo fu fatto per niente». (Renata Viganò)

Caro zio e compagno Franco,
partigiano nella 36a Brigata Garibaldi,
Sento giusto chiamarti zio quanto compagno. Il mio amatissimo nonno, che mi allevò meglio di un padre e mi illuminò il cammino con l’esempio, era tuo cugino, ma forse per timidezza non seppe mai dirti che ti teneva nel cuore come un fratello. Un fratello di cui andava assai fiero. Altrettanto fiero era della sua famiglia. Quando mi parlava di tuo padre Pietro e dell’incarcerazione che subì, del suo povero papà Giovanni che non poté conoscere, e del suo nonno Paolo, che quando vedeva i fascisti gli diceva di passare da un’altra parte, i suoi occhi fino all’ultimo dei suoi giorni si riempivano di commozione e di orgoglio. E diceva: «I Sangiorgi son gente che non abbassa la testa!».
Vedi, non ha importanza se l’anagrafe non mi dà ragione. Io sono una Sangiorgi. Il mio cuore batte proprio forte come il vostro. Vostro è il sangue che mi scorre nelle vene. Lo stesso che un tempo vi spinse a ribellarvi ai soprusi e alle violenze della tirannide nazi-fascista. Lo stesso sangue che vi portò a lottare anche a costo della vita, seguendo ideali di eguaglianza e di libertà. Se ti scrivo è perché so, quindi, che potrai comprendermi.

Voi faceste della vostra vita una vita di lotta. Ed io porto avanti, fiera, la vostra bandiera, perché ciò che voi aveste la forza e il coraggio di fare, non si vanifichi. Perché a questo mondo ancora non v’è né eguaglianza, né tantomeno libertà.
Per quelle stesse ragioni, che da sempre vi guidarono nell’esistenza, a volte può anche capitare, lo saprai meglio di me, di subire l’incarcerazione. Ed oggi è quel che m’è capitato. Da ieri, 26 gennaio, mi trovo nel carcere di Torino. Ti chiedo, se mi vuoi un poco di bene, di non soffrirne, di non preoccuparti, ché la vita m’ha reso forte abbastanza per capire che sono nel giusto, e l’animo non lo perdo facilmente. Anch’io mi considero resistente e partigiana. Questi sono i miei valori. Niente al mondo e nessuno potrà mai togliermeli.
Sono in carcere perché, come naturale che sia, per me, cerco di oppormi con tutta me stessa a quell’oppressore che è questa società capitalista, alla sua voracità distruttrice, vigliacca e feroce. Sono al fianco del popolo valsusino, in lotta contro quel mostro che è l’Alta velocità, da circa vent’anni resistente. Un popolo di persone semplici, fiere e coraggiose, innamorate delle loro montagne, un tutt’uno con esse e pronte, sempre, a difenderle a qualsiasi costo (insomma, il popolo valsusino ha requisiti che sarebbero molto familiari anche a te, Franco!). Ed ero al loro fianco anche nell’estate scorsa, quando arrivarono, con la forza delle ruspe e dei lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo, a sgomberare quella che per quaranta giorni definimmo la “Libera Repubblica della Maddalena”. E per questo mi si accusa di resistenza aggravata e lesioni. In tutto gli indagati sono una quarantina, di cui una ventina circa in carcere. A loro va tutta la mia vicinanza ed affetto grande. Sono venuti a prenderci nelle nostre case, ieri mattina, in perfetto stile fascista. Una grande operazione di tipo mediatico, nel vano tentativo di dividere il movimento, come sono soliti fare, in buoni e cattivi, violenti e non violenti. Rappresaglia del nemico si chiama. Non vi riusciranno, sciocchi. Hanno già più volte giocato questa carta, inutilmente. Stupidi e con scarsa memoria. Sortiranno l’effetto opposto.
Per quanto riguarda me, sono forte più che mai, la solidarietà da parte dei miei compagni è infinita. Ho già ricevuto tantissimi telegrammi di incoraggiamento. Poco fa, forse verso le 19, sono venuti qui sotto al carcere a salutare me e gli altri prigionieri, con fuochi d’artificio, che anche se ho sentito molto da lontano mi hanno profondamente commossa (quante volte anch’io sono stata dall’altra parte del muro a fare lo stesso!).
Caro zio e compagno Franco, sono qui da un giorno e la prima lettera che scrivo è per te. Ancora non so quando mi sarà possibile spedirtela, perché non ho né buste né francobolli, e mi par di capire che qui qualsiasi richiesta ha tempi burocratici d’una piramide d’Egitto!
Ti scrivo perché il pensiero che mi leggerai mi dà forza e ispirazione (…) Una raccomandazione … Quando dalle tue finestre ti affaccerai all’orizzonte medicinese, dài un bacio per me alle mie gloriose terre, patria di braccianti fieri e ribelli…

saluti libertari e un forte abbraccio a te
Gabriela Sangiorgi
Carcere “Lo Russo – Cotugno”, Torino, 27 gennaio 2012

Posted in antifa, no tav, pensatoio, personale/politico, resistenze, storie di donne.