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La storia della partigiana combattente Elsa Oliva (Elsinki)

Dalla rubrica radiofonica “Storie di donne”. 

Leggiamo alcuni stralci da “La resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi”, a cura di Annamaria Bruzzone e Rachele Farina, Ed. La Pietra, 1975.

Appartengo a una famiglia di antifascisti di Piedimulera, un piccolo paese non lontano da Domodossola, dove sono nata nel 1921. Mio padre e mia madre si sono sempre rifiutati di iscriversi al partito fascista. Mio padre, dopo il 1929, è stato privato del posto di lavoro. Forse mio padre, che non era molto politicizzato, piuttosto che andare incontro a tanti guai avrebbe anche ceduto e preso la tessera. Ma c’era mia madre. E mia madre è sempre stata una socialista, proveniente da una famiglia di socialisti: un fratello fuoriuscito in Francia, un altro morto molto giovane perché picchiato dai fascisti. Da noi l’elemento forte della famiglia è sempre stata la mamma. Era una donna molto umile, una donna che, guardandola, nessuno avrebbe detto che avesse tanta personalità.

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Noi figli abbiamo tutti dovuto lavorare fin da bambini. Io, ad esempio, tempo per giocare ne ho avuto fino ad otto anni. Più tardi, dovevo scappare per giocare, buscandomi naturalmente tutto quello che mi dovevo buscare. Bisognava lavorare, sicuro. Mi ricordo che andavo in seconda elementare quando ho iniziato il mio primo lavoro: fare le pulizie in casa dei signorotti del paese. Allora nessuno regolava il lavoro. Sotto i dodici anni si andava a lavorare e poi ti davano quello che volevano. Vera istruzione dalla scuola non ne ho avuta molta. A Piedimulera c’era solo fino alla quarta elementare, poi si doveva venire a Domodossola. Quindi potevano andare avanti nelle scuole solo quelli che avevano i mezzi finanziari, almeno per pagarsi il trasporto. Ma a parte il problema economico, credo che ci sarebbero state anche altre difficoltà, perché noi non eravamo ben accetti nella società fascista.

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Nel nostro ambiente familiare c’è stata certamente una preparazione politica, anche se indiretta. Mia mamma non ci esortava apertamente all’antifascismo neanche quando mio padre veniva a casa gonfio di botte e sanguinante.
Siamo cresciuti, si può dire, di fronte a una realtà che non ci sembrava giusta. Quando vedevamo mio padre massacrato di botte, la bicicletta con i pacchi tutta fracassata, stavamo ad origliare quello che dicevano i nostri genitori e capivamo che c’era qualcosa che non quadrava.

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Si era nel primo anno di guerra, i viveri cominciavano a scarseggiare e io e mio fratello andavamo spesso a fare merende in una frazione di Ortisei, nello chalet di una certa Lise. Una domenica pomeriggio sento parlare in ladino due o tre allogeni che erano seduti al bancone. Uno di loro pronuncia delle parole di insulto contro noi italiani. Allora sono andata di fronte a quell’uomo e ho detto: “Scusi da quanti anni vive in Italia? Conosce l’italiano? Mi vuole ripetere in italiano quello che ha detto?”….E quello, dopo un momento di esitazione mi ha detto che i soldati italiani erano tutti porci e che Hitler avrebbe pensato a mettere a posto anche loro. Sono rimasta come cieca, mi è caduta una nuvola di fronte agli occhi: gli sono volata addosso, l’ho graffiato, l’ho rovinato. Non ci vedevo più. L’uomo ha avuto almeno un mese dal medico per le ferite al viso, perché gli ho conficcato le unghie nella carne. Dopo la scena da Lise sono andata dal podestà per spiegargli com’era andata ‘sta faccenda, per chiarirgli che io ero stata provocata. E lui, mentre stava a sentire, ha tentato degli approcci, per cui gli ho lasciato andare un ceffone che gli ha girato la faccia dall’altra parte. Così poi è risultato che avevo picchiato anche il podestà! Hanno imbastito tutta una storia a modo loro e mi hanno mandato via da Ortisei.

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Ho preso il trenino della val gardena, ero vestita in modo molto sospetto per la polizia fascista: avevo dei pantalonacci, con la chiave di casa, di ferro, grande così, legata alla cintura; i capelli lunghi, proprio come una beat di oggi delle più vestite male; con il mio cane che, pur essendo al guingaglio, mi trascinava un po’ dove voleva, perché era più grosso di me. Mi ferma la polizia e mi domanda i documenti. Io non li avevo, perché quel giorno ero uscita non pensando di andare a Bolzano. Mi hanno trattenuta a Bolzano, a domicilio coatto. Dovevo uscire all’ora tale e rientrare all’ora tale, e comunicare subito il mio indirizzo. Lì in Bolzano mi sono ricreata una cerchia di amici. Tutti sapevano che ero stata condannata a domicilio coatto, per cui c’erano degli antifascisti che di nascosto mi mostravano la loro simpatia e con i quali potevano parlare liberamente, e alte persone con cui parlavo a monosillabi. C’era, ad esempio, la signora Salvatori, emigrata dalla Francia, che era un’autentica antifascista. Poi ho conosciuto Libera, bolognese, anche lei a domicilio coatto. Era comunista e aveva conosciuto Togliatti. È da lei che ho cominciato a sentire parlare di comunismo.

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Il 25 luglio è stato un momento proprio di grande liberazione. Io mi sono sentita rivivere, rinascere. Caduto il fascismo, mi sembrava che tutto fosse finito, che tutti dovessimo tornare a casa. Forse per me il 25 luglio è stata la presa di coscienza completa, perché ho avuto chiaro che bisognava fare qualcosa. Mi sentivo libera di rendermi effettivamente libera. Avrei potuto benissimo servire la resistenza come informatrice, come staffetta, restando all’anagrafe. Invece ho capito che io volevo combattere con le armi in mano.

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A Bolzano i nostri soldati, prigionieri, erano stati radunati come animali in un campo di concentramento sul bordo del fiume Talvera, in attesa di essere caricati sulle tradotte e deportati in Germania. Sono riuscita a parlare con alcuni di loro e a farli scappare parecchi.

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Il mio gruppo iniziale è stato eliminato presto. Abbiamo fatto delle belle azioni, dei buoni colpi. Abbiamo messo bombe sulle porte delle caserme di polizia, nella hall dell’albergo dov’erano alloggiati gli ufficiali tedeschi, poi abbiamo pensato di far saltare una delle macchine con tutta l’attrezzatura radio ricevente e trasmittente per comunicare con il Comando supremo a Berlino…..
Verso la fine di novembre sono stata arrestata. Me lo sentivo che mi prendevano. Mi hanno tenuta dentro dieci giorni. Io ho negato tutto, sono stata sempre sulla difensiva. Solo quando mi hanno detto che avevano fucilato Giovanni, mio carissimo compagno, ho gridato a chi mi interrogava: “bastardo!”. Da quel momento non mi hanno più interrogata.
Mi hanno fatta salire su una tradotta per il Brennero. A pochi chilometri dal confine, ci hanno fatto scendere perché la linea era interrotta, e ci hanno messi provvisoriamente in un recinto come le bestie. C’erano con me tanti poveri ragazzi che da giorni erano in tradotta. Io avevo cominciato a tossire continuamente, giorno e notte. Sentendo l’aria mi son detta: “Se non scappo ora, non vado più. È meglio tentare. Tanto, se rimango, muoio lo stesso”. Mi guardo intorno e dico: “Qui, se vogliamo, la metà di noi può scappare”.
Questi uomini mi hanno lasciata allibita, non si muovevano, piangevano, non avevano più spirito di niente. Non c’erano sbarre da aprire o pali da togliere; bastava avere un po’ di coraggio, studiare il movimento delle guardie tedesche e trovare, di notte, il momento adatto. Ci siamo messi d’accordo in sette, siamo ritornati verso Bolzano. Alle porte della città ci siamo salutati e ognuno ha preso la sua strada. Ho deciso di tornare a casa, a Domodossola.

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Sono stata a casa per qualche mese, poi, verso maggio, dico a mia mamma: “Vado anch’io in montagna. È il mio destino, lasciami fare”. E la mamma non si è opposta. Erano venuti i tedeschi in casa a cercare Elsa Oliva e io me l’ero cavata con un po’ di fortuna. Anzi, devo dire che di fortuna ne ho avuta molta; se no, come me la sarei cavata con due condanne a morte? La sera stessa della visita dei tedeschi me ne sono andata. Ho camminato tutta la notte lungo il greto del fiume per evitare i posti di blocco e al mattino ero alle porte di Crusinallo. Volevo andare a cercare mio fratello in formazione, ma non era facile. Avevo poi il problema di farmi accettare come partigiana. Ho pensato di presentarmi come crocerossina, anche se non avevo mai fatto nemmeno un’iniezione. Io volevo sparare, fare i combattimenti, ma certo quelli avrebbero subito detto di no. Per mia fortuna, proprio sulla strada vicino alla stazione trovo Meloni, magnifico compagno della II brigata “Beltrami”, con un gruppo di sette, otto partigiani su un camioncino. Dico che voglio andare con loro, salgo sul camioncino. Dopo mezz’ora eravamo già tutti amici per la pelle. Ero felice, avevo di nuovo il mio ambiente.

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Ho detto a tutti: “non sono venuta qui per cercare un innamorato. Io sono qui per combattere e rimango solo se mi date un’arma e mi mettete nel quadro di quelli che devono fare la guardia e le azioni. In più farò l’infermiera. Se siete d’accordo resto, se no me ne vado”. È stata una buona premessa. Non ho dovuto mai lamentarmi di nessuno. Sono stata segnata nei quadri della guardia e, se dovevo stare fuori da sola, ci stavo. Avevo un’arma, non ero solo l’infermiera. Al primo combattimento ho dimostrato che sapevo combattere come loro e che l’arma non la tenevo solo per bellezza, ma per mirare e per colpire. Curavo i miei compagni, ma non li servivo. Se uno voleva un panino, se lo faceva; se uno doveva lavare la gavetta o i calzini, se li lavava lui. Io non ero andata da loro per lavare i piatti, per rattoppargli i pantaloni, io ero andata per combattere. Ogni tanto mi spingevo fino a Meina a vedere il mio bambino che era a balia. Ma mi tenevo lontana dalla casa. Lo vedevo giocare, correre, m’assicuravo che stesse bene, ma non mi facevo vedere, né dicevo niente a nessuno: l’avrei messo in pericolo.

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Alla fine del ’44 riesco ad avere notizie, tramite un amico, di mio fratello Aldo, che si faceva chiamare “Ridolini”. Ho chiesto allora di passare nella sua formazione, la Valtoce….Anche qui ho continuato a fare la combattente e l’infermiera. Ho cominciato ad avere funzioni di comando e alla fine mi è stata affidata una volante, la Volante “Elsinki”. Così mi chiamavo da partigiana per ricordare il nome Elsa.

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L’8 dicembre 1944 sono stata fatta prigioniera dai fascisti, per il tradimento di un ex partigiano. Mi hanno portato a Omegna. Ho subito tenuto con i fascisti un atteggiamento aggressivo che forse mi ha salvato da molte cose. So che con un’altra partigiana prigioniera si sono comportati bestialmente, l’hanno picchiata tanto che gli hanno sfondato i polmoni. Non sapendo come si stanno mettendo le cose, penso che devo uscire di lì, magari facendomi ricoverare. Mando la figlia del custode a prendere del sonnifero. Trangugio le pastiglie. Quando ho ripreso conoscenza, dopo tre giorni, sono all’ospedale. Quel giorno c’è un altro grande conflitto a fuoco con le forze partigiane, a Quarna, e i fascisti ricevono una dura sconfitta. È ormai sicuro che sarò fucilata il mattino dopo. Comincio a pensare: “Questo è il momento che devo andare”. Che mi ammazzassero mentre scappavo o l’indomani mattina in piazza era quasi la stessa cosa. Anzi, preferivo morire mentre tentavo di scappare.

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Ero libera, ero fuori! Ricongiunta ai compagni e a mio fratello, che era sceso per liberarmi, sono risalita in montagna. Ho ripreso la mia vita in formazione. Sono ricominciati i combattimenti, i rastrellamenti, le marce. La giornata quasi sempre era sfibrante, però c’erano anche ore che trascorrevamo giocando. Eravamo quasi tutti intorno ai vent’anni. Non bisogna dimenticare che la Resistenza è stata fatta in maggioranza da ragazzi.

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Col febbraio ’45 non c’è più stato tempo per giocare. Dovevamo spostarci continuamente per evitare i rastrellamenti e alla sera eravamo stanchissimi. Allora, almeno da noi, parlare di comunismo era un po’ difficile. Perfino nelle formazioni garibaldine i comunisti erano pochi. Per tutti noi c’era una continua maturazione politica. L’unità della Resistenza è stata molto strombazzata, ma è stata molto difficile e molto sofferta. Anche qui ci sono stati attriti e raffiche tra le diverse formazioni, ma la Resistenza è stata una cosa così grande che tutte queste cose è naturale che ci fossero.

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Il 24 aprile scendiamo verso il lago. Arriviamo appena al di là della passerella che c’era sul fiume, che i tedeschi asserragliati nei pressi della stazione ferroviaria cominciano a sparare. Abbiamo usato delle mitragliere che ci erano state paracadutate, molto carine ed efficienti. La reazione è stata ferocissima: con mortai e cannoncini ci hanno bombardato fino all’una di notte. I nazifascisti saranno stati trecento e noi una ventina. È stato il combattimento più feroce, più tremendo: da tutti i buchi, da tutti i cespugli arrivavano raffiche. Mi sono trovata di fronte due tedeschi, li ho fatti fuori, prima l’uno, poi l’altro. Dallo sfinimento non capivo più niente. Arrivavano pallottole da tutte le parti e mi sembrava di combattere contro i mulini a vento.

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C’era un fascista che ci aveva fatto prigionieri sul Mottarone. Mescolato alla popolazione, anche lui applaudiva. Era talmente preso dall’entusiasmo a darci il benvenuto che non si è neanche accorto che gli abbiamo girato alle spalle. Grido: “scemo, non potevi stare rintanato in qualche buco?” L’abbiamo portato al cimitero e lo abbiamo giustiziato. E a Milano, quando c’è stata la sfilata, tra quella moltitudine plaudente, pensavo che forse una buona parte erano quelli che ci avevano sparato contro.

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Certo che quando c’è stata la smobilitazione hanno dato troppo poco tempo per giustiziare i criminali. Tutt’a un tratto non era più possibile giudicare nessuno. C’è stata una comunicazione: dall’ora tot non si potevano più processare i prigionieri, ma si dovevano consegnare.

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Il dopo liberazione è stato certamente molto diverso da come lo pensavo. Il mio rimpianto più grande del dopo è stato di non essere morta prima, durante la lotta. Se io ho invidiato qualcuno, non ho mai invidiato i compagni vissuti ma i compagni morti. Dopo la Liberazione non avrebbe assolutamente essere permessa la riorganizzazione legale del fascismo, la nascita del MSI. Sono mancate le riforme che dovevano agevolare la grande massa popolare, le agevolazioni sono sempre state per i medesimi, per i ricchi, quelli che oggi portano la camicia beige o azzurra, ma che è sempre la camicia nera di ieri.
Per noi partigiani, dopo la Liberazione, trovare un posto di lavoro era un sogno. Mi ricordo il primo anniversari della Liberazione, il 25 aprile del ’46, mi son detta: “e’ la nostra festa”. Sono andata davanti al municipio col fazzoletto rosso al collo. Certa gente mi sghignazzava in faccia. Qualche voce diceva: “Va a fa’ la calzetta!”. Io avevo ancora le armi in casa, nascoste in cantina. Avevo una voglia di vendicarmi, di prendere un mitra e poi di andare là a dire: “Adesso vi faccio la calza io a voi!”.

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Le armi me le hanno trovate nel ’47. Per la fame mio fratello ha venduto una pistola. Si vede che chi l’ha comprata era un informatore della polizia. Sono venuti, hanno perquisito la casa, hanno trovato le armi nascoste in cantina. Allora un guaio! In quel momento m’è giovato non essere iscritta al partito comunista. Volevano sapere dov’erano i depositi. Li ho mandati in montagna a scavare un po’ a vuoto. Tutti avevano le armi in casa, perché pensavamo di doverle ancora adoperare. Non avevamo visto, con la Liberazione, quello che avevamo sognato tanto in montagna.

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Secondo i signorotti di Domodossola bisognava quasi vergognarsi di essere stati partigiani. Ma quel che mi faceva rabbia era vedere che anche quei partiti che avrebbero dovuto prendere delle posizioni forti, di difesa, non le prendevano. Tutti gli impiegati conservavano il loro posto, anche se erano stati dei fascistoni, e i partigiani erano disoccupati. È stato il periodo più buio della mia vita, il dopo liberazione. Anche il discorso dell’emancipazione femminile in questi trent’anni non è andato molto avanti, nonostante tutto, perché l’uomo non accetta. Le donne queste cose le sentono, ma poi troviamo l’ostacolo più grande nell’uomo. Nell’uomo politicizzato e non politicizzato. Di sinistra e non di sinistra. L’uomo fa fatica ad abbandonare la posizione di privilegio che ha. Nella lotta di liberazione non sempre la donna era accettata come lo sono stata io. Anche nelle formazioni dei garibaldini la donna serviva per lavare, rammendare, al massimo fare la staffetta. E rischiava più dell’uomo, perché le staffette rischiavano moltissimo: io avevo un fucile per difendermi, ma la staffetta doveva passare tutte le file, andare in mezzo al nemico, disarmata, e fare quello che faceva. Sono tantissime le donne che hanno partecipato alla Resistenza e non hanno avuto il riconoscimento.

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Ricordo che negli interrogatori che ho ricevuto a Bolzano da parte dei nazisti mi hanno chiamata per la prima volta “ribelle”. Ebbene io mi sono detta: “Io sarò sempre ribelle, è una parola che mi piace, lo sarò sempre…”

***Oltre a suo libro più noto,Ragazza partigiana, Elsa Oliva ha pubblicato anche una piccola raccolta di racconti dal titolo “La Repubblica partigiana dell’Ossola e altri episodi”È uscito postumo, nel 1996, il suo racconto autobiografico “Bortolina. Storia di una donna”.

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