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Per un’anamnesi militante

Vi proponiamo l’intervento di MeDeA all’interno dell’iniziativa di oggi organizzata a Roma dalle compagne della Coordinamenta. Buona lettura a chi leggerà e grazie alle compagne per averci invitate e per averci regalato un’occasione di riflessione in più su una questione così importante come la memoria, femminista.

Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “proprio così com’è stato davvero”. Vuol dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. (…) il pericolo è uno solo: prestarsi ad essere strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla. (Walter Benjamin, Sul concetto di storia, VI, ed. Porfido, 2007)

Come, quanto e chi ha memoria del femminismo, oggi? E quanto tale memoria è collettiva e condivisa? Ci sono due modi per abbozzare un’ipotesi di risposta. Uno è interpretare l’espressione “memoria del femminismo” nel senso di un genitivo soggettivo, come memoria che le femministe hanno di sè, o  di chi le ha precedute – ma è una via, pur importante per dar sostanza e resistenza alla propria militanza, molto, troppo autoreferenziale – l’altro è quello di leggerlo come un genitivo oggettivo: l’eventuale memoria collettiva che le donne oggi hanno, conservano, rielaborano sulla portata teorica e pratica del femminismo. Porsi la questione da questo secondo punto di vista significa spesso  trovarsi di fronte a  qualcosa che, purtroppo, nell’esperienza quotidiana di molte di noi e al di fuori dei rispettivi ambiti di militanza, si manifesta  come  rimozione, oblio, talvolta persino rifiuto esplicito, comunque mancata o parziale conoscenza. Le donne, specie le giovani donne, tendono a utilizzare la parola femminismo in senso spregiativo, come una di quelle brutte pestilenze del passato che la scoperta degli antibiotici ha neutralizzato e reso inattuali per sempre. Due anni fa – con l’emergenza della proposta di legge regionale sull’ingresso dei volontari del Mpv nei consultori- come collettivo avevamo cominciato un’indagine sul campo per sondare la conoscenza che le donne, e in particolare le giovani donne avevano di quella proposta e dei consultori in generale. I primi dati furono pressochè a senso unico: i consultori non  frequentati, poco conosciuti, o, se conosciuti per ragioni occasionali ( spesso emergenze, come la pillola del giorno dopo), vissuti e percepiti con disagio e disaffezione. Al di là del dato sui consultori, che meriterebbe un’analisi a parte, emerse allora qualcosa che molte ritrovano nella vita quotidiana, al di là dei propri ambiti di movimento, femministi e/o misti, sul lavoro, nel tempo libero. Una cattiva e incompleta conoscenza del femminismo, delle sue elaborazioni teoriche e del significato delle sue pratiche, percepito come qualcosa di vecchio e polveroso, inattuale, inutile se non dannoso per quanto riguarda soprattutto la sfera delle relazioni tra i generi.

Chi scrive lavora, da anni, nella scuola. In particolare nella scuola secondaria di primo grado, le scuole medie. Non insegno ma coordino progetti educativi- o quel che ne rimane, dopo i tagli, nazionali, regionali e comunali- che, nati negli anni ’90, dovevano contribuire ad una piena realizzazione dell’autonomia scolastica, soprattutto per quanto riguarda l’accoglienza delle competenze altre e la loro piena parificazione con quelle curricolari. Che ne è stato di quell’autonomia è sotto gli occhi di tutte e tutti coloro che frequentino la scuola, a vario titolo. Tuttavia la scuola media rappresenta un osservatorio privilegiato per la questione della memoria collettiva delle donne – intesa come memoria viva, attiva al presente. Intanto perchè chi ci lavora è donna nella stragrande maggioranza dei casi, e ciò fa della scuola un contesto ampiamente femminilizzato. Nelle scuola la maggiorparte dei docenti sono donne. Sono donne molte presidi, sono donne le coordinatrici dei consigli di classe. E, infine, sono donne di età compresa, generalmente, tra i 40 e i 50 anni. Le altre, quelle più giovani, esistono, ma come meteore precarie, destinate a spostarsi di anno in anno tra una scuola e l’altra, e poco contribuiscono, per questo motivo, al clima che si respira a scuola.

Prima di raccontare cosa accade in questo contesto particolare, e femminilizzato, seppure in forma necessariamente ridotta ed incompleta, è necessaria una breve digressione, che inquadri queste donne e il lavoro che svolgono nel contesto più generale della scuola e del suo disastro, e su come tale disastro di declini a Torino.

Quest’anno, ai tagli e alle riduzioni di organico nazionali si sommano quelli comunali e regionali. Il comune di Torino è sull’orlo del commissariamento ed è una condizione oramai percepibile molto concretamente. La città esce sfigurata da 10 anni abbondanti di dominio assoluto della cosca P(D) (S)- San Paolo ( a partire dall’intesa Castellani/Salza, alla fine degli anni ’90): sottoposta ad intensa cementificazione nelle aree un tempo industriali ( 3 nuove spine[1] nel giro di pochi anni); instupidita dalla sbornia collettiva delle olimpiadi del 2006, che hanno lasciato il maggior buco nel bilancio cittadino di sempre e molte aree di montagna deturpate; gentrificata nelle zone del centro – Torino era una di quelle città, insieme a Napoli e Genova, ad avere un centro storico popolare e  sotto-proletario. Le aree antiche del quadrilatero sono state svendute e “riqualificate” dalla lobby politica ( Castellani e seguenti)/ finanziaria( San Paolo, Enrico Salza e successori) e immobiliarista ( De Giuli & figli) fin dalla seconda metà degli anni 90: i migranti e i poveri, che abitavano quelle zone e che non potevano sostenere i costi delle ristrutturazioni coatte, sostanzialmente deportati o spinti verso le periferie. Torino aveva case di edilizia popolare fin sotto il suo monumento simbolo, la Mole Antonelliana, ora resistono in centro forse due/tre palazzi, gli altri sono stati svuotati, sgomberati ristrutturati e venduti ai figli della borghesia della movida – l’unica economia che tira- uno, l’ex casa Gramsci, nel pieno centro ricco e bello della città, se l’è aggiudicato lo stesso che anni fa svuotava le case del quadrilatero – De Giuli, il maggior immobiliarista della città nonchè finanziatore del PD locale- e sta per diventare un hotel di lusso. Si rompe in più punti la composizione sociale mista ed eterogenea che caratterizzava, ancora all’inizio degli anni ’90, molte aree della città, l’embricatura tra ceti poveri e ricchi, spesso separati da un solo isolato, ma nello stesso quartiere. Il centro, come quello di molte città europee e mondiali, viene museificato, la città trasformata in logo accattivante, il conflitto sociale isolato e respinto ai margini della città. Le profonde modificazioni urbanistiche di Torino lasciano segni e trasformano profondamente il tessuto sociale in un senso che – tanto è veloce ed intenso il processo- potrà essere pienamente letto solo tra qualche tempo. In ogni caso anche questa situazione concorre a rafforzare un  altro processo, anche questo esistente su scala nazionale e da tempo, che fa tornare la scuola il luogo privilegiato di un nuovo classismo, ancora più assoluto in quanto oggi fondato anche su quelle trasformazioni urbanistiche. I progetti di sostegno alla scolarità vanno scomparendo, e resta sempre meno. In questo a.s., a inizio ottobre le scuole in cui lavoro avevano già esaurito le scorte di libri dati in comodato d’uso alle famiglie che non possono comprarli, è il primo anno che accade con questa velocità. Negli stessi quartieri popolari che più patiscono la crisi, la diminuzione dei progetti di sostegno dentro la  scuola si associa alla scomparsa dell’educativa territoriale, nel quartiere. Si apre una corsa ansiosa all’ultimo fondo, all’ultimo progetto, bisogna operare scelte tra  chi “è messo peggio” per offrirgli l’accesso a corsi di recupero, ore di sostegno individualizzato, progetti educativi specifici. Ed ecco che si verifica un fenomeno che solo a chi non abbia memoria e coscienza, soprattutto di genere, può sembrare strano. Prenderò il caso di una singola scuola ma assicuro che il dato è costante e comune a molti altri istituti, una tendenza media e fissa, sempre più marcata. Il 90% delle segnalazioni  come casi problematici a vario titolo –per  contesto familiare, situazione socio-economica, problemi didattici, disturbi attentivi e /o del comportamento, quali fattori dai quali risulta un alto tasso di probabilità di insuccesso scolastico- riguarda studenti maschi.

Più precisamente il 90% delle segnalazioni fatte da insegnanti almeno all’80% femmine riguarda maschi.

Cosa vuol dire? Per indagare questo dato significativo occorrerebbe una ricerca approfondita.

Possiamo però azzardare qualcosa di più probabile di una semplice ipotesi.

I maschi, in fase adolescenziale e pre-adolescenziale ( 10-14 anni) manifestano disagi multi-fattoriali attraverso modalità di comportamento che risultano più disturbanti, mediamente, di quelli espressi dalle femmine coetanee. In parole povere: possono rompere i beni materiali della scuola ( sbattere le porte, bucare le ruote delle gomme dei/delle loro insegnanti – beninteso, tutte cose che anche le femmine possono fare e fanno, ma più raramente-), interrompere lo svolgimento regolare delle lezioni urlando, imprecando variamente ecc., e  manifestano solitamente una più esplicita insofferenza nei confronti delle regole dell’ambiente scolastico. Più o meno inconsapevolmente le contestano, le mettono in discussione, con comportamenti che turbano l’animo dell/della insegnante medio/a. Le loro insegnanti dunque non possono non notarli, analizzarli, a volte addirittura, con una tendenza diagnostica maldestra e fuori luogo, preoccuparsene, infine segnalarli. La maggior parte delle volte non si tratta, da parte loro, di una reale adesione a progetti che, nello spirito, si vorrebbero partecipati, in rete e sinergici, ma di una delega totale: rompe, prenditelo, portatelo fuori dalla classe, lontano da me. Ma al di là di tale tendenza ad una delega deresponsabilizzante, propria di molti e molte insegnanti, senza distinzione di genere, vi è la tendenza delle insegnanti donne a segnalare come casi problematici una grande maggioranza di maschi. Come se vedessero solo in loro segnali di disagio e le femmine finissero invece in un cono d’ombra. Il disagio di queste ultime, in quella fascia di età, si esprime infatti spesso in altre forme, meno disturbanti. Alcune scompaiono lunghi periodi da scuola, non vengono più, e capita molto spesso, e di solito sono quelle brave a scuola, schiacciate da un perfezionismo ansioso che a poco a poco rende ai loro occhi la scuola il luogo di una prova schiacciante. Altre semplicemente si isolano, anche se apparentemente seguono la lezione, danno del lei all’insegnante o si alzano in piedi quando entra in classe.

Il risultato è sempre il medesimo, non vengono viste. E nel caso di problemi seri, che richiederebbero interventi tempestivi, come i DSA (disturbi specifici dell’apprendimento, come dislessia e disgrafia), il ritardo nell’accorgersi di loro è spesso molto dannoso. Chi disturba viene visto e segnalato, a volte anche con troppa puntualità, al limite  anche un poco criminalizzato (è l’ideologia del bullismo che oramai dilaga perchè  esonera da ulteriori analisi, ed auto-analisi che costringerebbero anche gli/le insegnanti ad interrogarsi sui propri metodi ecc.), chi invece non disturba e si limita a non frequentare la scuola o a vivere il disagio in modo meno disturbante semplicemente non è visto, o meglio vistA, o vista con gran ritardo. Perchè una maggioranza di donne adulte tende a rimuovere dal proprio campo visivo un gran numero di adolescenti femmine? Forse perchè, credo, le femmine sono portatrici di una sofferenza, di un disagio introflesso che non solo non ostacola il lavoro delle insegnanti ma si esplica all’interno di comportamenti fenomenicamente ed apparentemente corretti, educati, responsabili, oblativi, passivi, moderati e adesivi. Le femmine piccole, in una parola, deludono meno le aspettative di quelle grandi, che nelle vecchie virtù della temperanza, della moderazione, dell’oblatività e della disponibilità possono rispecchiarsi senza intoppi, ritrovare sè stesse, confermarsi. Appare la figura vecchia per storia ma non perciò inattuale della donna votata alla cura. Non inattuale dato che, lo sappiamo, la contrazione economica del periodo e la precarizzazione selvaggia del lavoro colpiscono le donne molto più che gli uomini, con la conseguenza che sono proprio loro le prime a ritirarsi e ritornare nel privato familiare, a prendersi cura di bimbi e nonni.

Da un lato dunque si intravede una mentalità femminile che, anche ma non solo a causa delle trasformazioni e degli aggiustamenti strutturali del sistema (welfare, lavoro ecc.), si ripropone con forza alle donne, e spesso secondo un movimento che va dalle donne mature a quelle più giovani, come trasmissione di un antico e asfittico sapere di tollerante accondiscendenza, di rassegnata e naturale sottomissione. Dall’altro, però,  anche il femminismo storico ha conosciuto la propria drammatica trahison de clercs. Spenta l’eco delle conquiste giuridiche del divorzio e dell’aborto, molte sono state cooptate dalle istituzioni, persuase di essere chiamate a cambiare il sistema “dal di dentro” e rivelando, con ciò, una mentalità solo emancipazionista che alla liberazione infine poco ha contribuito. Parte del linguaggio è diventato istituzionale – la storia dell’uso della parola genere, ormai comune nelle università, ne è una testimonianza sufficiente. Sono andate moltiplicandosi cattedre universitarie di Storia delle donne, ma chi scrive non riesce a dimenticare la lezione sempre valida dei post-colonial studies, ed anche del femminismo post-coloniale dunque: che la museificazione, l’accademizzazione di un sapere, di una storia, di una cultura sono sempre il sintomo di una loro imminente estinzione. L’accademia celebra ciò che ritiene essere in punto di morte e così è stato, in parte e solo in parte, per fortuna, anche della memoria e della storia del femminismo in questo paese. Lo si può verificare uscendo per la strada, parlando con le adolescenti e con le giovani di femminismo, sentendo che ne pensano. La maggiorparte fa una smorfia, si schernisce, non risponde, non sa, o disprezza apertamente.

E’ chiaro allora che una memoria femminista attuale, presente, vitale deve spezzare la catena che connette la vecchia cultura della cura sottomessa e della passività naturale, rigenerata dalla congiuntura socio-economica globale, con quella, più recente e totalmente istituzionale, dei diritti delle donne, che suggerisce alle donne  di delegare allo Stato, alle sue istituzioni e ai/alle suoi/sue esperti/e a vario titolo ( poliziotti/e, ginecologi/e ecc.) la propria potenza di autodeterminazione in materia di violenza di genere, di aborto e contraccezione, di politiche del lavoro, di politiche sociali in genere. Quella cultura emancipazionista per la quale, finita l’epoca delle emergenze legali, è diventato normale o scontato che la parola sui corpi delle donne e sulle loro vite fosse data agli ed alle esperte  e tolta, nuovamente, alle donne stesse. E’ così che oggi pretendono di parlare per le donne ( dove “per” sta  come “al posto di” e come “a favore di”) l’avvocata Bongiorno e la starlette Hunzinker, da destra, e le borghesi e classiste SeNonOraQuando, da sinistra. O il tecno-stregone Severino Antinori.

Rompere questa continuum tra il vecchio che ritorna e il più recente conformismo istituzionale, significa liberare uno spazio in cui la memoria delle donne possa essere riattivata, attualizzata, demuseificata, attraverso nuove pratiche di autodeterminazione, autogestione, trasmissione orizzontale dei saperi. Liberata dal pericolo “di prestarsi ad essere strumento delle classi dominanti”, così com’è insegnata all’università o  imbrigliata in leggi che ne cristallizzano e neutralizzano la potenza e l’efficacia, finendo per riconfermare – ed è questo il caso del femminismo storico emancipazionista cooptato dalle istituzioni, di cui anche Se non ora quando è erede- il carattere assoluto, necessario, irrevocabile della sacra famiglia: lo Stato-patrigno, la scienza-matrigna, l’istituzione-tutrice, e il privato come amante, per chi se lo può permettere. Solo una memoria così, che rimetta al centro la questione e la sfida attuale dell’autodeterminazione rilanciandola attraverso le  sue pratiche,

che riconsegni alle donne la consapevolezza nelle proprie capacità di autogestione e riappropriazione dei processi sociali che più le riguardano,

che strappi le conquiste dell’emancipazione al dominio dell’ovvio e nel contempo le faccia vedere per ciò che sono, tappe, momenti parziali di un percorso di liberazione ancora da compiere, e da compiere insieme,

può ancora raccontare qualcosa alle giovani che niente ne sanno, e niente ne vogliono sapere, oggi.

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[1]    La Spina, a Torino, indica il maxi-progetto di un grande corso che attraversa la città da nord a sud, ricoprendo il passante ferroviario. Le Spine 1, 2 3, e 4 rappresentano i vari settori della città interessati dall’opera; cominciata anni fa, in realtà implica la cosiddetta riqualificazione di imponenti zone cittadine, alcune delle quali ex- zone industriali. Sotto il nome incoraggiante di riqualificazione passa invece un fiume di cemento che ha soffocato interi quartieri con zone residenziali spuntate come funghi – e molti alloggi ad oggi  invenduti nella città con il numero di sfratti esecutivi tra i più alti d’Italia- nelle quali mancano del tutto servizi di pubblica utilità e proliferano mega centri commerciali. Ciò anche grazie al sapiente sfruttamento che il centro-sinistra della città ha fatto delle modifiche berlusconiane alla legge sugli oneri di edificazione: secondo tali modifiche infatti da qualche anno non è più necessario che l’immobiliarista compensi il quartiere, gravato da un nuovo fiume di cemento, costruendo anche opere pubbliche come asili, spazi aperti ai residenti ecc. ma può versare l’equivalente direttamente nelle casse dei comuni, cosa che l’indebitatissimo comune di Torino ha prontamente recepito.

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