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Hackmeeting e precarietà: siamo perfettamente inconciliabili!

Alcune delle donne che si sono incontrate agli Stati Generali della Precarietà a Roma intendono proseguire la riflessione iniziata dentro il WS perfettamente inconciliabili. Vogliamo partire dal personale per arrivare al politico, costruendo una nuova geografia dei femminismi precari e immaginando delle proposte politiche che conducano tutt* verso lo sciopero precario. Vogliamo ragionare anche sulle forme della comunicazione attraverso le quali si può produrre contaminazione e consapevolezza sul tema della precarietà.

Le compagne e amiche di Femminismo a Sud e di Corrente Alternata hanno proposto di inserire due momenti di discussione sulla precarietà all’interno dell’hackmeeting fiorentino, al csa nExt Emerson, in via Bellagio 15.

Venerdì 24 giugno dalle ore 20.00 e sabato 25 giugno dalle ore 11.00 saremo presenti all’Hackmeeting di Firenze con il workshop:

Perfettamente inconciliabili: dal personale al politico. Dalla narrazione alla proposta politica. Le forme della comunicazione!

Il workshop si svolgerà a partire da una narrazione personale, osservando i provvedimenti legislativi e come essi hanno inciso nelle nostre vite.
La riflessione punterà sulle scelte politiche attuate dai vari governi negli ultimi 20 anni, durante i quali, sia il governo di centro destra che quello di centro sinistra, hanno riproposto le politiche di conciliazione ora sintetizzate nel Libro Bianco presentato dal Ministro Sacconi.

Ci sembra essenziale specificare che le politiche di conciliazione derivano da una programmazione delle pari opportunità. Era infatti una strategia politico/economica rivolta alle donne che accompagnava sempre la presentazione di nuovi margini di flessibilità lavorativa come se questa fosse un premio alla nostra fatica quotidiana. Veniva presentata con artifizi retorici che tentavano di fare passare il part time, la flessibilità, i contratti precari, come una opportunità per le donne di dedicarsi a ciò che le sostanziava in quanto persone la cui “differenza” rappresentava un valore.

Il tema della conciliazione tra lavoro e famiglia fu un ottimo modo per sdoganare le politiche economiche che venivano dettate dalle imprese e da Confindustria. Il risultato fu la costante precarizzazione per le donne che perdevano sempre più opportunità di lavoro alle quali veniva detto che “flessibilità” è “bello”, “concilia con la famiglia”, ti fa stare bene e ti rende più bella la pelle.

In realtà già dieci anni fa, nel 2003, le politiche economiche sostenute da gruppi di donne e dai sindacati maggiori, vennero bocciate da tantissime donne provenienti da tutta l’Europa radunate a discutere di precarietà e lavoro in una iniziativa che si svolse a Parigi (in occasione del social forum europeo a Bobigny una tre giorni dedicata solo alle donne). I sindacati maggiori subirono le rivendicazioni di tante donne arrabbiate che chiedevano a gran voce il full time e la stabilità professionale.

Le politiche della conciliazione sono usate in senso peggiorativo dal governo di centro destra che nel libro bianco di Sacconi racconta di una Italia in cui gli uomini diventano unici soggetti retribuiti, le donne diventano quelle che hanno il dovere di conciliare o meglio di scegliere la famiglia, la maternità, i lavori di cura, gratuiti, in famiglia. Tutto ciò corrisponde con un inquietante piano interdisciplinare che dalla sanità all’economia racconta di donne che sono di proprietà dello Stato il quale decide per noi con chi possiamo vivere la nostra sessualità, in che modo, con quali tempi, con o senza contraccettivi, senza possibilità di utilizzare la pillola del giorno dopo, con una opposizione alla ru486, in una costante ingerenza che ci sottrae qualunque spazio di autodeterminazione.

Il libro bianco di Sacconi racconta anche del ruolo che devono avere in Italia le straniere, adoperate per i lavori di cura, ammesse ancora solo con il sistema dei flussi che regola l’ingresso delle colf in Italia a seconda della richiesta delle famiglie italiane. A queste donne, indispensabili a garantire una qualità della vita per famiglie in cui le donne hanno un lavoro, lo Stato Italiano chiede braccia ma con loro non concilia alcunché perché si stabilisce a priori che non abbiano una famiglia, figli, una propria casa, poiché si pretende siano alloggiate presso le famiglie italiane in cui lavorano. Si ritiene che il peso di tanto lavoro possa ricadere su di loro mentre alle donne italiane, quelle che non possono permettersi una colf, è richiesto di restare a casa, svolgere i lavori di cura e diventare sempre più dipendenti sul piano economico.

Il livello di dipendenza economica delle donne incide anche fortemente sulla quantità di violenze maschili che esse subiscono. Incide sulla possibilità che queste donne hanno di poter ricominciare a esistere qualora decidessero di abbandonare una relazione violenta.

In realtà i piani dei partiti di governo in relazione al diritto di famiglia raccontano come questo aspetto sia risolto istituzionalmente con un maggiore controllo da parte dell’ex coniuge o delle famiglie di provenienza rispetto alle donne che non trovano il modo di ottenere una propria autonomia.

Nulla di quanto avviene in Italia si traduce in politiche che offrono alle donne l’opportunità di scegliere. La famiglia diventa un obbligo. Diventa un obbligo anche il lavoro di cura. Per le donne sembra non esserci alternativa e quelle proposte che parlano di conciliazione che dovrebbero riguardare le donne che un lavoro già ce l’hanno o quelle che potranno trovarlo solo a certe condizioni in realtà raccontano soltanto di uno Stato in cui viene smantellato lo stato sociale, le donne diventano sempre di più l’unico ammortizzatore sociale per le famiglie e per l’intera società, si persegue la “dipendenza” delle donne affinchè siano “utili” a compiere lavoro gratuito in famiglia che fa risparmiare allo Stato diversi miliardi di euro. Le politiche di conciliazione dettano le parole d’ordine, non rispettano i singoli desideri, si rivolgono alle famiglie etero con prole.

Le politiche attuali dunque impongono un unico ruolo e impediscono alle donne di definire i propri desideri quando questi non coincidono con una idea di maternità. Per le donne è diventato impossibile dire, per esempio, che non hanno alcuna intenzione di essere madri. Le stesse lotte per la precarietà, quelle dettate da sindacati e da gruppi di destra (“tempo per essere madri” di casapound) impongono alle precarie di rivendicare la propria condizione affermando spesso che “la precarietà” non va bene perché non ci permette di fare figli, come se invece la precarietà fosse qualcosa di meraviglioso in assenza di un desiderio riproduttivo.

Le politiche di conciliazione discriminano comunque sia le donne che gli uomini. Per le donne la “conciliazione” si risolve nella precarietà lavorativa invece che in asili statali o aziendali che consentano loro di lavorare a tempo pieno. Si risolve nella legittimazione di richieste paradossali come quella – inaccettabile – del sussidio in favore delle casalinghe, a conferma del fatto che i lavori domestici non potrebbero che essere assegnati alle donne invece che rappresentare quell’insieme di impegni che ciascun elemento della famiglia dovrà sostenere.

Per gli uomini si traduce in una discriminazione che li lascia bloccati nei loro ruoli, costretti da chi gli lascia pensare che sono dei privilegiati a sopportare il peso della dipendenza economica di mogli e figli. Una dipendenza, riguardo alle loro compagne, che gli uomini dovranno sostenere anche dopo una eventuale separazione. Perché lo Stato sposta il conflitto tra istituzioni e donne alle quali non consente alcuna opportunità di autonomia, e alle quali viene trasmesso in tutti i modi il messaggio che separarsi non è conveniente, consegnandolo alla tensione spesso irrisolvibile tra uomini e donne.

Infatti anche gli ultimi provvedimenti istituzionali, a vari livelli, su proposte che sono discusse e approvate nei comuni, nelle province, nelle regioni, nel parlamento, pur riconoscendo la difficoltà degli uomini rispetto al fatto che non possono sostenere il mantenimento delle ex compagne, scelgono di affidare ancora una volta forme di assistenza economico/abitative agli uomini piuttosto che sottrarli dalla delega e affidare quelle risorse alle donne permettendo loro così di avere gli strumenti essenziali per poter ricominciare una vita indipendente (paradossale pensare di dare risorse agli uomini perchè gli uomini le “concedano” alle donne, come se le donne non fossero sufficientemente responsabili per gestirsi da sole e sottrarsi dalla dipendenza).

Che le donne siano sole o in coppia in ogni caso il welfare è pensato e gestito in modo tale che esse rimangano sempre dipendenti dagli uomini, siano essi i padri, o comunque i genitori, o i partner o gli ex.

Alle donne è comunque affidato il lavoro di cura dei figli, tant’è che è immaginata con molta difficoltà una soluzione che possa equiparare i ruoli genitoriali e possa permettere ai padri di avere tempo per svolgere pari mansioni nell’ambito familiare. Non viene diffusa una cultura sul congedo parentale. Si immagina sempre che debbano essere le donne ad essere disponibili ad assistere figli e familiari quando questi hanno problemi di salute.

E’ significativo per esempio il fatto che quando i bambini sono in età da asilo bisogna riempire un modulo che è direttamente rivolto alle madri e alle loro condizioni, se studentesse o in stato di precarietà l’asilo riterrà di non accogliere il bambino perché la sua accoglienza è basata sulla classificazione del tempo disponibile che la madre dichiara di avere.

Queste ed altre sono le riflessioni che ci attraversano e che riguardano tutte e tutti, perché le politiche di conciliazione sono inconciliabili con i progetti di vita di chiunque.

Ci riproponiamo di immaginare insieme delle forme di ribellione, di pratiche, varie modalità che possano intrecciarsi in una lotta comune, lo sciopero precario.

L’obiettivo più immediato che vogliamo raggiungere è quello della contaminazione, della condivisione di esperienze per accrescere la consapevolezza, per fare rete e creare punti di riferimento forti che possano essere utili per incontrare le singole lotte, le pratiche individuali di resistenza, le varie dimensioni di resistenza alla precarietà che esistono nei vari territori.

Questo è il metodo che vorremmo usare:

Vorremmo proporre un metodo che ci offra l’opportunità di metterci in rete attraverso le nostre storie, quello che rappresentano rispetto alla narrazione collettiva che riguarda la precarietà.

Perciò il workshop lo immaginiamo scandito da una presentazione, con nome o nickname, la descrizione del lavoro che fai o vorresti fare, del tipo di contratto che hai, o se non hai un contratto sarebbe bello che ciascuno pronunciasse la propria “dipendenza”, senza vergognarsene, perciò sarebbe utile citare anche gli attori o le attrici che ci consentono di sopravvivere. Dunque chi ci supporta, chi ci sostiene economicamente, chi ci permette, se altri o noi stess*, di fare quello che facciamo, leggere, vivere, mangiare, avere un tetto sopra la testa, come riusciamo a dedicarci alla politica, che sappiamo non essere gratuita.

Quello che ci sembra interessante fare è presentare la dipendenza economica, la propria, quella di chi dipende da noi. Raccontare la difficoltà quando non possiamo fare ciò che si desidera. Parlare della difficoltà di portare avanti la politica perché costa. Del non poter partecipare agli spazi dove si discute di te e della tua vita, quindi non poter contribuire alla progettazione della propria esistenza per assenza di gratuità della politica.

Ci interessa caratterizzare l’incontro all’insegna dell’autenticità. Perché sia possibile attuare una sollecitazione alla narrazione. Sarebbe bello pronunciare la propria precarietà e quindi invitare chi prende parte agli altri seminari a presentarsi sostituendo ai vari titoli accademici o rispetto alle proprie competenze la condizione di precarietà se la si vive. Perché se non si pronuncia la precarietà allora la precarietà non esiste.

Vorremmo anche chiedere alle persone che partecipano all’hackmeeting, attraverso la pratica dell’inchiesta, che lascia la libertà di raccontare tre disagi e tre desideri delle singole individualità,  di rispondere alle domande che noi stesse ci poniamo perché ogni esperienza, con garanzia dell’anonimato, possa diventare quella che suggerisce una dopo l’altra le parole d’ordine di una lotta comune.

Abbiamo immaginato di poter condividere queste narrazioni sul web con dei report che saranno resi nel rispetto della privacy, in cui non sia presente un identikit preciso di chi si racconta e in cui sia garantito sempre l’anonimato.

Quello che ci sembra fondamentale è fare della propria fragilità un punto di forza e di rivendicazione politica. Riuscire, attraverso la condivisione delle proprie storie, ad abbattere le logiche identitarie. Riuscire anche a fare a meno delle teorie che non basiamo sulle nostre esperienze per creare parole nuove, nuove teorie che siano solo il risultato del nostro vissuto. Perché le parole d’ordine che sceglieremo ci corrispondano perfettamente, perché la nostra lotta ci rappresenti davvero, rappresenti veramente noi con le nostre specificità e le nostre differenze.

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