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Contributo per un’indagine su un corpo al di sopra di ogni sospetto: in tutte noi c’è una plebea (per fortuna!)

Non c’è assolutamente realtà sociologica nella plebe. Ma c’è comunque sempre qualcosa, nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi negli individui stessi che sfugge alle relazioni di potere; qualcosa che non è affatto la materia prima, più o meno docile o resistente, ma il movimento centrifugo, l’energia di segno opposto, l’elemento sfuggente. Non esiste “la plebe”, c’è “della plebe”….nei corpi e nelle anime, negli individui, nel proletariato e nella borghesia, ma con un’estensione, delle forme, delle irriducibilità differenti (…) è ciò che risponde ad ogni avanzata del potere attraverso un movimento per svincolarsene.

Michel Foucault, ” Poteri e strategie”, Les Revoltes Logiques, n°4, 1977

Nel suo corrosivo contributo sul corpo, Elisabetta Teghil mette in luce in modo del tutto condivisibile lo scacco del femminismo “social-democratico”, la sua trasformazione  distorta e colposa della “politica dell’esperienza” in  mera realizzazione personale nella Grande Gara Globale in cui il capitalismo, con inarrestabile accelerazione soprattutto negli ultimi trent’anni, trasforma l’esistenza. Nel contesto di quel che un tempo si sarebbe chiamata “sussunzione reale” della vita al Capitale, anche le declinazioni ibridanti dei generi – transessualità, transgender, queer- sono piegate a conferma e “puntello”, secondo l’espressione  di Teghil, dello stato delle cose. Lo dimostrano, non me ne voglia nessuno, le omologhe voci social/liberal democratiche all’interno del GLBTQ: rivendicazioni democratiche di una normalità (eterosessuale) che sacrificano alla parità dei diritti e ad una soluzione emancipatoria della subalternità le potenzialità creative, alternative e implicitamente sovversive dell’essere minoranza. Un’interpretazione algebrica dell’eguaglianza…”vogliamo avere il diritto di sposarci, fare e adottare figli come gli eterosessuali”…Del rischio di un’integrazione nello stato – nel duplice senso, avrebbe detto P.P. Pasolini, di stato civile e stato delle cose – dei movimenti di liberazione  omosessuali ma anche femministi, sebbene secondo linee differenti, si era già accorto Michel Foucault. Pensando in particolare ai primi, vedeva con preoccupazione quella che già all’inizio degli anni ’80 appariva come una cristallizzazione dell’omosessualità nella figura stereotipata della trasgressione, in quanto tale fissa, predeterminata e prevedibile e che gioco forza finiva con il confermare e rafforzare la normalità performativa del coito e della coppia eterosessuali. E’ ciò  che affermava in una fondamentale intervista dal titolo L’amitié comme mode de vie:

” L’omosessualità non viene presentata che sottoforma di un piacere immediato, di due giovani  che si incontrano per la strada, si seducono con uno sguardo, e hanno già le mani sulle patte, e nel giro di un quarto d’ora sono già a consumare. Siamo qui di fronte ad un’immagine artefatta  dell’omosessualità, che ha perduto ogni capacità d’inquietare per due ragioni: risponde ad un canone  rassicurante della bellezza, e nullifica tutto ciò che vi può essere d’inquietante nell’affetto e nella tenerezza, nell’amicizia, nella fedeltà e nel cameratismo, ai quali una società ripulita non può dare spazio senza temere che si costituiscano alleanze, che si annodino linee di forze impreviste. Penso che sia questo a rendere perturbante l’omosessualità: il modo di vivere omosessuale più che l’atto sessuale in sè. Veramente inquietante non è immaginare un atto sessuale non conforme alla legge o alla natura, ma che degli individui comincino ad amarsi, ecco il problema. L’istituzione è presa in contro-piede: intensità affettive la attraversano, insieme mantenendola e perturbandola: basti pensare all’esercito, l’amore tra uomini vi è senza posa evocato e svergognato. I codici istituzionali non possono convalidare queste relazioni ad intensità multiple, a tinte variabili, dai movimenti impercettibili e dalle forme cangianti.. Queste relazioni che fanno corto-circuito e introducono l’amore là dove dovrebbero essere la legge, la regola, l’abitudine.”1.

A trent’anni di distanza, lo stereotipo pruriginoso del sesso mordi e fuggi, di una seduzione torbida e clandestina lascia fatalmente il posto, nell’immaginario collettivo mille volte riplasmato dai media, ad un tipo nuovo, non più trasgressivo ma familiare, che egualmente, in chiave foucaultiana,  esprime l’onnivora efficacia normalizzatrice dei dispositivi di potere/sapere: l’omosessuale che scende in piazza a chiedere una parificazione delle coppie di fatto, sancita e riconosciuta dalle istituzioni, sogna di avere figli e via dicendo. Non a caso la pubblicità e il mercato dei consumi, l’unica entità che, davvero, non discrimina nessuno, hanno scoperto quelli/e che una volta erano invertiti/e e quelle cui un tempo (le “povere zitelle” oggi “single” o puellae eternae, anche a 50 anni) era riservato un destino di triste ziette di figli altrui o badanti di mamma e papà, come altrettanti promettenti bacini di valorizzazione del capitale nella sua sua forma più morbosamente vitale, il consumo. Perciò prima o poi persino in Italia, culla del clericalismo e della doppia morale dorotea, avremo i matrimoni omosessuali, e, forse tra 100 anni, non troppi secondo le ragioni e i tempi della storia, le nuove coppie potranno adottare bambini, e anche mettersi le corna con il brivido ipocrita che solo può dare l’essersi unit* in matrimonio. Finalmente dilagherà il modello contrattuale che da quando esiste la proprietà privata non cessa di imporsi a tutti gli ambiti dell’esistente.
Dall’altra parte, il femminismo, ha ragione Teghil, nella sua versione social-democratica, riformista, emancipatoria e occidentofila, è risultato essere il prolungamento subdolo del potere omologante del sistema. La libertà:  interpretata come possibilità di competere nel grande campionato del Capitale, ridotta da bene a valore, volgarizzata come diritto all’esposizione commerciale di sè nella vetrina sociale e come realizzata promessa di un riformismo che, tendendo alla parità di diritti (come pari opportunità di carriera e eguali possibilità di competere), ha interpretato naturalisticamente le classi, giustificandone  l’esistenza e la coercitività. Il femminismo liberal-progressista occidentale si è persino, tante volte solo nell’ultimo decennio, prestato ad alibi di guerre neo-colonialistiche mascherate da  scontri di civiltà 2. Certamente è mancata la spinta a riprendere con forza l’analisi della femminilità e del suo corpo in quanto prodotti sociali e culturali, di procedere in una decostruzione lucida  del genere come declinazione della classe, in una lettura del corpo come corpo sociale. Ciò che avrebbe significato anche tener ferma la distinzione tra emancipazione e liberazione. C’è tuttavia qualcosa di troppo schematico nelle interessanti  argomentazioni di Teghil, quando nelle prime righe del suo contributo afferma che esistono “tante maniere di realizzare la femminilità quante sono le classi e le frazioni di classe. La verità di una classe o di una frazione di classe si esprime, quindi, nella forma in cui i sessi sono distribuiti al suo interno”. Qualcosa come un’interpretazione della questione del genere, e specificamente delle sue declinazioni femminili, che sembra assumere come determinante unico il concetto di classe. Una specie di causalità lineare tra classe e genere. Come se le classi fossero immediatamente leggibili nei comportamenti sociali e in particolar modo sessuali. Da un lato è certamente vero che viviamo in una costante rimozione culturale dell’esistenza delle classi – basta farsi un giro nelle scuole di Stato, dove la stessa parola è stata oramai quasi abolita, impronunciabile fantasticheria di un tempo che fu. Altrettanto vero è  che, in questo contesto,  la definizione dei ruoli sessuali da un lato, dall’altro l’interpretazione delle esperienze “ibridanti” come varianti di una normalità accettata quale unica possibilità reale, da parte delle femministe “social-democratiche” e non solo, agiscono a rinforzo del sistema gerarchico delle classi sociali come enti di natura, scontati e immutabili. Ma l’esigenza di una critica radicale che squarci il cupo velo della neutralizzazione dei conflitti sociali non autorizza, a mio parere, a “bruciare le tappe” immaginando che i conflitti, le contraddizioni e le classi siano immediatamente leggibili nelle loro presunte manifestazioni dirette. Come se del mondo, parafrasando un vecchio Althusser ispirato dall’eresia spinozista dell’opacità dell’immediato,  si potesse dare lettura galileiana, a “libro aperto”…Una critica radicale dovrebbe anche  tener conto delle ampie trasformazioni operate nel tessuto sociale dalla “sovrastruttura” culturale, scegliendo una strada più difficile, un viaggio più lungo, un rapporto non all’insegna della totalizzazione tra classe/struttura economica/ cultura. Negli ultimi 30 anni, evidentemente, la società dei consumi come metamorfosi ultima del capitalismo e delle sue capacità sussuntive, e i nuovi dispositivi mediatici e tecnologici di sapere/potere hanno estremamente complessificato una lettura dei comportamenti sociali che adotti come unico determinante – anche nella versione meno immediata di “determinante in ultima istanza” – il mero concetto di classe. Il potere omologante dei nuovi media e della tecnologia infomatica, la diffusione capillare dei social network, soprattutto nelle generazioni più giovani, ne impongono, a mio parere, un radicale ripensamento. Da un lato, certamente, sono stati utilizzati come rinforzo della liturgia neutralizzante del sistema, in termini di  accesso aperto al mondo globalizzato e alle sue edeniche possibilità, dall’altro hanno rappresentato, per parte del movimento, una nuova trahison des clercs – l’illusione di una libera circolazione, trasmissione, condivisione dei saperi all’interno di una società che resta classista e assegna dunque fin dalla nascita strumenti dispari per disporne.
Ma la tecnica ha funzionato anche in un altro senso. Non solo come strumento ulteriore di rinforzo del classismo, ma come nuovo dispositivo creativo, positivo, in senso foucaultiano, di saperi, di condotte sociali, corpi, e quindi anche tipi di femminilità.
Un potere terribilmente potente, quello di creare un’estetica nuova, nel senso letterale del termine, fisico, corporeo, e non solo nell’accezione assunta dopo Baumgarten. Dunque non ha solo modificato il nostro gusto, i nostri giudizi riflettenti sul bello, ma, si potrebbe dire, finanche le nostre capacità di percepire, di ascoltare, gustare, vedere. I nostri sensi e il nostro corpo. Qualcosa che trascende le partizioni di classe per inscriversi nel bios, nel vivente, riplasmando la nuda vita (zoé). Che oggi chi vive dalla parte tecnologicamente avanzata del mondo sia più capace di vedere che di sentire,  non è  soltanto un noioso adagio morale. Riguarda i figli e le figlie delle badanti come le rampolle dei licei classici del centro. Da un lato contribuisce a rinforzare l’impressione che le classi non esistono, quel falso universalismo dei diritti su in alto, nel “cielo della politica”, dall’altro però, capovolgendo Marx, nemmeno scendendo sulla terra le cose si mostrano per quello che sono. Non ci sono solo classi ma una riplasmazione del vivente, del corpo, che nel XXI secolo, e qui, ancora una volta Foucault, a distanza, ci vedeva bene, è il punto d’appoggio privilegiato delle tecnologie di potere. Pensarlo non significa abbracciare una tesi pessimistica, o vedere in tali mutamenti epocali la definitiva chiusura di ogni spazio di liberazione possibile. Nè depotenziare la critica in termini di classe, ma, al contrario, complessificarla. Infine, significa tener conto del fatto che risiede nei corpi un fondo di resistenza e di differenza che del potere è il contraccolpo, il punto d’applicazione, il momento, nel senso fisico-matematico, di ogni svincolamento alla presa dei dispositivi.  Foucault lo chiamava “plebe”, con un certo gusto della provocazione  nei confronti della tradizione marxista, che aveva espulso il lumpenproletariat dalla fucina della Storia con la S maiuscola e aveva assunto a unico suo motore il proletariato. La plebe foucaultiana non ha realtà sociologica, piuttosto rappresenza l’opposizione inscritta nei corpi a quel complesso di pratiche e strategie disciplinari che il potere è secondo un’ottica microfisica che non lo riduca alla mera lotta di classe la quale, per sè sola, non può dare conto della realtà sociale. Essa è l'”elemento sfuggente” che risponde ad ogni avanzata della presa dei dispositivi svincolandosene, e in essa risiede la possibilità ultima della pensée du dehors, di un pensarsi al di fuori e di una fuoriuscita possibile. Poichè è soprattutto nelle istituzioni totali, nelle “eterotopie”, cui Foucault ha dedicato lunghe e approfondite riflessioni, i manicomi, ma anche le carceri, la scuola, le fabbriche- che il disciplinamento prende la forma di un dréssage minuzioso volto a creare “corpi docili”, è sempre in tali circostanze che la plebe in senso non-sociologico si manifesta con maggior forza. Essa, infine, rappresenta anche la possibilità di pensare e analizzare i nuovi fenomeni sociali, le nuove antropogenesi biopolitiche, che resterebbero mal comprese adottando la sola lotta di classe come “ratio” dell’esercizio del potere e come principio esaustivo dell’intellegibilità dell’assoggettamento. Un potere che invece è costituito da relazioni fluide e multiple che proprio nei corpi, borghesi, proletari e sottoproletari, trova quelle singolarità che insieme lo limitano e ne consentono lo sviluppo, giusta l’interpretazione di Deleuze, secondo il quale il funzionamento del potere è di tipo diagrammatico, cioè non è mai movimento di rapporti di forze senza essere anche emissione di singolarità, cui deve la propria mobilità. Il fatto che non si sia mai fuori del potere ma sempre dentro, giacchè les rapports de pouvoir passent à l’intérieur des corps 3, garantisce anche la presenza di un ineliminabile contraccolpo plebeo di resistenza.  In questo senso si comprende la paradossale affermazione del Foucault deleuziano per cui, “l’ultima parola del potere è che la resistenza viene prima” e un campo sociale, prima di “strategizzare”, resiste 4. La priorità delle singolarità/corpi/ plebi che resistono agli assoggettamenti  emerge più chiaramente quando il vecchio potere, tendenzialmente fiscale, di prelievo – di beni o di vite, come diritto sovrano a dare la morte- a partire dal XVII e più efficacemente nel XIX secolo, ormai insufficiente e oneroso, affina e restringe la tessitura delle proprie maglie mutando verso ( com’è prerogativa delle forze). Quando cioè si tramuta in un potere sostanzialmente produttivo, positivo, sulla vita, applicandovisi per moltiplicarla, massimizzarla, potenziarla, e poi discriminarla, controllarla, e ripartirla attraverso un  minuzioso dréssage disciplinare del corpo (anatomo-politica) e la regolazione del corpo-specie  quale supporto dei processi biologici (bio-politica)5. Non si tratta di rimuovere la logica della contraddizione e quella della lotta di classe dalla “scatola degli attrezzi” delle nostre analisi, ma di considerare invece che le relazioni di potere non si identificano con quelle di classe, piuttosto intrecciandosi con altri tipi di relazione, di produzione, di classe anche, familiari e così via.
Un esempio, a concludere una riflessione necessariamente lacunosa che vuole semplicemente rilanciare una serie di questioni critiche, di interrogativi sul tema centrale del corpo.
Come analizzare, in termini politici, sociali e culturali una delle costellazioni di sintomi storicamente tra le più connotate in termini di genere quale la cosiddetta anoressia nervosa? Come pensarla, all’interno di una riflessione sul corpo, e sul corpo femminile in particolare, che si voglia politica e che dunque rifiuti parimenti l’approccio clinico, ormai dominante ed evidente persino nel modo di nominarla, ma anche quello più propriamente analitico, incompleto? La psicopatologia attuale è attraversata da una divaricazione epistemologica, evidente anche nelle proposte di cura dell’anoressia. Da un lato, come rileva lucidamente il lacaniano Domenico Cosenza, 6 l’approccio nosografico e descrittivo del DSM-IV che si esprime, sul piano terapeutico, negli approcci cognitivo-comportamentali. Si tratta della prospettiva egemone negli USA e nelle università europee ed italiane, che prescrive un approccio bio-medico alla sofferenza psichica, scorporandola dalla singolarità e dalla specificità del soggetto coinvolto, da trattare  con “procedure standardizzate di tipo farmacologico ed ortopedico-rieducativo” per riportarlo alla normalità cognitivo-comportamentale. Ciò è evidente anche nell’onomastica clinica: eating disorders, disturbi alimentari (nel DSM) e non anoressia nervosa, bulimia ecc. Il successo e la diffusione di tale approccio è da ricercarsi nella sua adesività alle esigenze di valutazione quantitativa  e di controllo sociale che caratterizzano i dispositivi di potere delle società contemporanee. Dall’altro persiste ancora l’approccio freudo-lacaniano, psicanalitico, con la sua teoria del soggetto e la relativa clinica del sintomo, che la critica femminista degli anni ’70, il femminismo della differenza ma anche quello più recente, post-coloniale, hanno contribuito a decostruire rilevando le carenze del concetto stesso di Soggetto ( come Soggetto fintamente  universale in realtà maschile e occidentale e via dicendo).
Al di là di tali due approcci, psicopatologico e psicoanalitico, vi è invece la possibilità di una lettura  storica e biopolitica di un fenomeno che ha assunto, negli ultimi anni, proporzioni globali. Se all’epoca delle cosiddette mosche bianche, quella del boom economico in Italia, e delle rapide  trasformazioni economiche e sociali, l’anoressia, allora esclusivamente femminile, non era ancora divenuta oggetto specifico di studio, a partire dagli anni ’70 il fenomeno comincia ad estendersi con proporzioni quasi epidemiche. E’ la fase rappresentata da uno dei testi storici sull’anoressia, La gabbia d’oro di Hilde Bruch per la quale, come in effetti era, l’anoressia “colpisce  le figlie delle famiglie benestanti, colte e affermate, non solo negli Stati Uniti ma in molti altri paesi sviluppati” mentre “raramente o forse mai colpisce i poveri e non è stata descritta nei paesi sottosviluppati”. Dunque malattia elettiva con specifica declinazione di genere ma anche di classe.  Ma a partire dagli anni’80 e con crescente evidenza dagli anni ’90 ad oggi, le coordinate del fenomeno  mutano sostanzialmente. Alle condotte restrittive caratteristiche di epoche precedenti se ne intrecciano altre, associabili al consumo sregolato del cibo, al corpo-contenitore, nel divorare famelico dell’obesità o in quello purgativo ed evacuativo della bulimia. Tutto ciò contemporaneamente all’affermarsi efficace di dispositivi di potere e sapere tipici  della società dei consumi e di quella dello spettacolo, che ne rappresenta l’ulteriore evoluzione . Un numero crescente di corpi che si torcono, si svuotano, si riempiono e si svuotano ancora, o lievitano all’inverosimile, il corrispettivo distopico della parabola del consumatore o della consumatrice felici, il cortocircuito della successione mediatica schizofrenica di corpi, fresati e lucidi e di cibi veloci e preconfezionati o slow, per palati (e tasche) più altolocati.
Non solo, nel contempo anoressia e bulimia perdono la loro marcata connotazione di classe, ripartendosi sia nell’intero corpo sociale dei paesi occidentali industrializzati, forniti in generale di quanto consente di soddisfare i bisogni primari della sopravvivenza, sia globalizzandosi ed estendendosi anche ai cosiddetti paesi in via di sviluppo. L’ultima metamorfosi del fenomeno riguarda i mezzi della sua diffusione. Se in passato bulimia e anoressia erano oggetti quasi esclusivi di discorsi tecnico-medici o non uscivano dalle stanze degli psicoanalisti, dopo aver invaso i media tradizionali divenendo argomenti di massa per talk-show, un fenomeno molto attuale e piuttosto esteso è rappresentato dalla diffusione dei siti cosiddetti pro-ANA. Si tratta di un fenomeno interessante e molto più complesso di quanto, alla prima lettura, potrebbe apparire. Non è solo la costituzione di comunità virtuali sul modello delle altre in rete. Questi siti semi-clandestini vengono  oscurati il più spesso delle volte perchè, con ragioni più che comprensibili ma che esprimono una visione troppo schematica e lineare della questione, sono ritenuti “contagiosi”, insieme veicolo e causa di un’ulteriore diffusione di condotte anoressico-bulimiche. (Secondo la stessa logica, largamente condivisa, che responsabilizza a senso unico la moda o i mass-media).
Essi sono vissuti  e utilizzati come strumento di diffusione e rivendicazione  “politica” del sintomo e rappresentano un fenomeno che, condividendo l’interpretazione di Cosenza, si presta ad una lettura molto diverso da quella femminista che alcune autrici hanno dato in passato. I siti pro-ana dunque non  sono soltanto  il sintomo dell’irriducibilità estrema del femminile in un mondo fallocentrico e retto da valori maschili dominanti.  Rappresentano un modo di fare legame sociale attorno ad una posizione identitaria forte ed esclusiva, la “patologia”, in cui una condotta distruttiva è utilizzata come fattore politico di aggregazione. “In questa prospettiva, il comunitarismo identitario dei siti pro-ANA si rivela come un agente (…) non finalizzato ad una lotta mutua  e solidale contro il sintomo, quale è per esempio il modello degli Alcolisti Anonimi, ma al contrario a un rafforzamento collettivo ed esclusivo della passione per il sintomo come via alternativa al legame sociale” 7.
Questo fenomeno, originatosi dalla sovrapposizione di tecnologie nuove a un sintomo “antico” in un mutato contesto socio-economico, ben rappresenta la complessità delle declinazioni del femminile, e del femminile “patologico”, che ne sono una parte. Resta, foucaultianamente, un dato da cui partire: posto che si tratta di forme di resistenza distruttive e che finiscono per negarsi come tali nel destino tragico delle singole (e dei singoli), non c’è bisogno di dirlo, è pur vero che si tratta di modalità sociali, di comunità identitarie che trascendono del tutto una tradizionale lettura in termini di classe, inscrivendosi a pieno titolo in quelle trasformazioni del vivente che sono proprie dei contesti biopolitici moderni. Non solo, si tratta di modalità esclusive e “segrete” che hanno anche un’altra funzione, nel caso specifico delle comunità virtuali pro-ana: quella di escludere del tutto e di difendersi dal discorso normalizzatore della psicopatologia come ortopedia dei comportamenti devianti e da quello patriarcale o matriarcale dell’analista classico. Effetto collaterale delle strategie del consumo e dello spettacolo, la rivendicazione di un sintomo da cui ci si vuole inguaribili, espresso in forma comunitaria ed identitaria ( con un’identità “malata” che si sovrappone a quella di genere ma non più di classe), manifesta le caratteristiche plebee delle singolarità foucaultiane al contempo effetto delle strategie di potere ( il rovescio del soggetto come oggetto di  soggettivazione, e dunque di assoggettamento) ma anche contraccolpo che resiste all’inclusione totale da parte dei dispositivi di potere/sapere. Come a dire, riprendendo Foucault, che vi è sempre contraccolpo, rispetto al potere, resistenza stenica rispetto alle sue strategie e ai suoi dispositivi, che questa resistenza è inscritta nei corpi e  non risponde (solo) alla logica della lotta di classe, non si dà ad una lettura fatta esclusivamente in termini di classe. Come nei corpi insieme omologati e altri   degli scatti di Diane Arbus, tesi dalla tensione tragica tra lo sforzo a normalizzarsi – era l’America neo-consumatrice degli anni ’50 e ’60 –  il proprio limite interno alla normalizzazione, all’omologazione. Per quanto possano tendere all’inclusione c’è qualcosa, in essi, che resiste, stride, una nota per sempre dissonante.

V. S.

Note

1     Michel Foucault, L’amitié comme mode de vie, da Gai Pied, n°25, aprile 1981. Trad. prop.
2    Tra le altre, Nina Power nel suo breve pamphlet La donna ad una dimensione ha ben ravvisato la virata bellicista e capitalista di parte del femminismo americano, i cui assunti sono stati snaturati e utilizzati come alibi delle missioni imperialistiche in Iraq e Afghanistan. Nel nome dei diritti delle donne oppresse dagli islamici sciovinisti, non era possibile non intervenire….
3    Intervista con L. Finas, in La Quinzaine Littraire, n.247, gennaio 1977, anche in M.Foucault, Dits et Ecrits.
4     G.Deleuze, Foucault.
5     M.Foucault, La Volontà di Sapere, Feltrinelli, Roma.
6    Domenico Cosenza, Il muro dell’anoressia, Astrolabio, Roma 2008.
7     D.Cosenza, Il muro dell’anoressia, op.cit.

L’immagine all’inizio è di Diane Arbus, Coppia di adolescenti in Hudson Street, 1963.

Posted in controllo, corpi, femminismi, immagini/immaginari, pensatoio, personale/politico, resistenze, storie di donne.


3 Responses

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  1. Francesca says

    La traduction en français de cet article est ici :
    http://culturevisuelle.org/imagination/2012/01/24/contribution-enquete-corps-plebeienne/

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  1. Radio di Massa » Blog Archive » [Radiodimassa]Streaming del seminario: Femminilizzazione del lavoro e ridefinizione dell’istituzione familiare linked to this post on 03/22/2012

    […] Indagine sul corpo al di sopra di ogni sospetto. In tutte noi c’è una plebea, per fortuna (http://medea.noblogs.org/2012/01/23/contributo-per-unindagine-su-un-corpo-al-di-sopra-di-ogni-sospet…) Tags: femminilizzazione del lavoro, femminsimo, lp, napoli, per amore o per forza, precarietà, […]