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La questione dell’altro

“Meditando sull’essere ho scoperto che la sua custodia esige uno sdoppiamento. L’uomo, solo, non può essere il guardiano dell’essere, in quanto la sua vigilanza suppone un certo dominio della natura e del linguaggio che paralizza il lasciar-essere (…) Concepire l’essere come due – l’essere dell’uomo e l’essere della donna – sposta e sdoppia il tracciato del limite di un mondo dove stare, vivere, pensare.”

Così scriveva Luce Irigaray nel 1983 declinando l’ontologia di Heidegger al plurale e al femminile ne L’oblio dell’aria. Filosofa e psicanalista belga, francese d’adozione, il suo pensiero ha costituito una formidabile risorsa teorica per il nuovo femminismo degli anni ’70, il femminismo della differenza. La sua opera, a partire dallo scandaloso Speculum de l’autre femme (1974), che le procurò la rottura con Lacan e l’Ecole Freudienne di Parigi e l’espulsione da Vincennes, è tutta dedicata alla riscoperta e alla valorizzazione dell’alterità radicale e irrimediabilmente differente della donna, obliata nei secoli da filosofia e psicanalisi. Relegata nella faccia buia della vita, dell’essere e del pensiero, oscurata dalla solarità accecante del fallogocentrismo (una delle sue tante parole-idee)  che ha scritto la storia della cultura e della società, la donna è ricondotta da Irigaray ad una dignità pari a quella maschile pur nella incessante differenza (a partire da quella corporea, intesa in chiave materialistica). Il testo seguente è la nostra traduzione di un suo intervento del 2002, ospitato dalla rivista femminista Labrys. Irigaray vi ripercorre il proprio cammino bio-bibliografico, gli snodi concettuali fondamentali, i dissapori con la De Beauvoir (la femminista “egualitarista” che non comprendeva le ragioni dell’alterità), le critiche sferzanti alla ratificazione del patriarcato di cui si è macchiata la psicanalisi a partire dal suo fondatore .

Pubblicare, oggi, questo testo, significa molte cose.

Rilanciare una riflessione sull’alterità vera che il femminismo della differenza, al di là delle accuse di essenzialismo (anche biologico), ha saputo allora proporre con forza, e farlo in un momento in cui l’attualità bruciante di paesi, culture e società differenti dalla nostra richiede lo sforzo di un pensiero che non proietti categorie “nostre” sull’altro/gli altri/le altre ma sia capace di pensare il nuovo, appunto, la Questione dell’altro.

Ma anche, più ambiziosamente e forse troppo, cominciare a riprendere l’implicito delle nostre pratiche politiche di lotta – il teorico – ed esplicitarlo in un confronto aperto sui limiti e i pregi del femminismo della differenza, e dei più recenti  apporti dei Gender Studies, della Queer Theory, del cyberfemminismo. Dunque sui limiti e i pregi del nostro pensarci, come donne e come femministe.

Cominciamo così, sperando di proseguire, buona lettura e a presto…

La questione dell’altro

(di Luce Irigaray, inedito apparso nel 2002 sulla rivista femminista Labrys)

La questione dell’altro è epocale: tuttavia è sovente mal posta, specie in senso gerarchico e naturalistico. E’ per questo, senza dubbio, che Simone de Beauvoir non ha compreso che l’altro sesso poteva significare «differente» e non «secondo» in quanto inferiore. Per me,  solo affermando la propria differenza  la donna può liberarsi dalla presa, su di sè, di una cultura al maschile. Per coltivare questa differenza, deve definire mediazioni consone al proprio genere: a livello del linguaggio, del diritto, della religione, della genealogia ecc. Dopo aver conquistato una soggettività libera ed autonoma, la donna deve imparare ad entrare in relazione con l’uomo in quanto altro, un altro differente ma non gerarchicamente superiore o inferiore.

Parole chiave: differenza, l’altro, genere, linguaggio

La filosofia occidentale, e forse la filosofia tutta, è andata costituendosi attorno ad un soggetto unico. Nel corso dei secoli, la possibile esistenza di soggetti differenti (l’uomo e la donna, in particolare) non è dunque mai stata immaginata.  Certamente, a partire dalla fine del XIX secolo, l’attenzione si è a poco a poco spostata sulla questione dell’altro. Il soggetto filosofico, ormai più che altro sociologico, è diventato un poco meno imperialista. Ha ammesso che esistevano identità diverse dalla sua: bambini, folli, «selvaggi», operai…C’erano dunque empiricità diverse da rispettare, e bisognava prestare maggior attenzione agli altri e alle loro diversità. Tuttavia il modello fondamentale dell’essere umano restava immutato: uno, unico, solitario, storicamente maschile, quello dell’uomo occidentale adulto, ragionevole, competente. Le diversità osservate erano quindi pensate e vissute in modo gerarchico, dal momemto che il multiplo era sempre sussunto dall’uno. Gli altri non erano che copie dell’idea dell’uomo, idea potenzialmente perfetta che tutte le copie più o meno imperfette dovevano sforzarsi di uguagliare. D’altronde queste copie imperfette non erano definite a partire da ciò che le distingueva propriamente – una soggettività differente- ma a partire dalla soggettività ideale ed in funzione delle loro mancanze in rapporto ad essa: età, sesso, razza, cultura, ecc. La soggettività paradigmatica restava dunque unica e gli «altri» rappresentavano esempi meno validi e gerarchizzati in rapporto all’unico soggetto. Questo modello filosofico corrisponde al paradigma politico del capo considerato come il migliore, come il solo in grado di governare cittadini più o meno all’altezza della propria identità umana, più o meno civili. Questa nozione dell’»altro» spiega senza dubbio il rifiuto, da parte di Simone de Beauvoir, di identificare la donna con l’altro. Poichè non vuole essere «seconda» rispetto al soggetto maschile,  chiede di assurgere ad una soggettività uguale a quella dell’uomo, identica o simile. Sul versante filosofico, ciò suppone un ritorno al soggetto unico, di fatto storicamente maschile, e l’obliterazione di una possibile soggetività altra rispetto a quella dell’uomo. Se il lavoro critico di Simone de Beauvoir sul dis-valore della donna come «seconda» nella cultura è in un certo senso giusto, il rifiuto di contemplare la questione della donna come «altro» rappresenta, filosoficamente e insieme politicamente, un importante passo indietro. Effettivamente la sua riflessione è, dal punto di vista storico, meno avanzata di quelle di alcuni filosofi – esistenzialisti, personalisti, o più schiettamete politici – riguardo alle relazioni possibili tra due o più soggetti; la de Beauvoir è indietro anche rispetto alle lotte delle donne per il riconoscimento di un’identità propria. Le sue proposizioni positive rappresentano, per me, un errore teorico e pratico dal momento che implicano la negazione di un(a) altro(a) valido come il soggetto.

L’altro: donna

La traiettoria del mio lavoro sulla soggettività femminile è in qualche modo inversa a quella di Simone de Beauvoir per quanto riguarda la questione dell’altro. Invece di dire: io non voglio essere l’altro per il soggetto maschile e, per evitare di esserlo, io pretendo di essere uguale a lui, io dico: la questione dell’altro nella tradizione occidentale è mal posta, nel suo alveo l’altro è sempre l’altro dello stesso, l’altro del soggetto stesso e non un altro soggetto ad esso irriducibile e di eguale dignità. Ciò conduce a sostenere che non c’è ancora stato realmente dell’‘altro per il soggetto filosofico, e più generalmente per il soggetto culturale e politico, nella nostra tradizione. L’altro- Dell’altra donna, sottotitolo di Speculum- dev’essere inteso come sostantivo. Questo designa, in francese come in altre lingue, l’italiano e l’inglese ad esempio, l’uomo e la donna. In quel sottotitolo ho voluto indicare che l’altro, infatti, non è neutro, nè grammaticalmente nè semanticamente, e che non è, o non è più possibile utilizzare indifferentemente la stessa parola per il maschile e il femminile. Ora questa pratica è comune in filosofia, religione e  politica. Si parla dell’esistenza dell’altro, dell’amore dell’altro, della cura dell’altro, ecc., senza porsi il problema di chi o che cosa quest’altro rappresenti. Tale mancanza di definizione dell’alterità dell’altro ha paralizzato il pensiero, compreso il metodo dialettico, in un sogno idealistico appropriato ad un solo soggetto (maschile), nella lusinga di un assoluto unico, ed ha consegnato la religione e la politica ad un empirismo che manca fondamentalmente di etica quanto al rispetto interpersonale. Infatti, se l’altro non è definito nella sua effettiva realtà, non è che un altro me stesso, non è mai detentore di una realtà altra, potendone solo avere più o meno di me. Così può rappresentare la grandezza o la perfezione assolute, in quanto Altro: Dio, Maestro, Logos; può designare il più piccolo o il più svantaggiato: il bambino, il malato, il povero, lo straniero; può nominare colui che io credo eguale a me. Non c’è veramente dell’altro, ma dello stesso: più piccolo, più grande, uguale a me (Io amo a te, Grasset, 1992: 103-104)

Invece di rifiutare d’essere l’altro genere, l’altro sesso, io chiedo d’essere considerata realmente un’altra, irriducibile al soggetto maschile. Da questo punto di vista, il sottotitolo di Speculum può sembrare stomachevole a Simone de Beauvoir: Dell’altra donna. All’epoca le avevo inviato il libro in totale buona fede, confidando nel suo appoggio per le  difficoltà che incontravo. Ma da parte sua non ho mai ricevuto alcuna risposta e non ho compreso la ragione del suo silenzio. Probabilmente l’ho offesa senza volerlo. Avevo letto l’Introduzione al Secondo sesso ben prima di scrivere Speculum, e non ricordavo più la posta rappresentata dalla problematica dell’altro nella sua opera. Forse lei non ha compreso che per me non era evidentemente questione del fatto che il mio sesso, o il mio genere, fossero « secondi », ma che i sessi o i generi fossero due, senza un primo nè un secondo.

Io proseguivo, a modo mio e senza conoscere i loro studi, una problemnatica vicina a quella delle animatrici statunitensi del neo-femminismo, del femminismo della differenza, parente piuttosto della rivoluzione culturale del Maggio  che del femminismo egualitario di Simone de Beauvoir.

Per ricordarne, brevemente, la posta in gioco: lo sfruttamento della donna ha luogo nella differenza tra i generi e nella differenza – e non obliterandola –  si risolve.

In Speculum io interpreto e critico la modalità in cui il soggetto filosofico, storicamente maschile, ha ridotto ogni altro al rapporto con sè stesso: complemento, proiezione, inverso, strumento, natura – all’interno del proprio mondo, del proprio orizzonte. Così come, a proposito del testo di Freud, a partire dai sistemi filosofici dominanti della nostra tradizione, mostro come l’altro è sempre l’altro dello stesso, e non un altro vero e proprio. Le critiche che rivolgo a Freud si rifanno tutte alla stessa interpretazione: non vede la sessualità e, più in generale, l’identità, della ragazza e dell’adolescente che in funzione della sessualità e dell’identità del ragazzo, dell’adolescente maschio, dell’uomo. Per esempio, secondo Freud, l’auto-erotismo della bambina esisterebbe fin tanto che questa confonde il proprio clitoride con un piccolo pene, e dunque finchè pensa di avere lo stesso sesso del fanciullo.

Quando, attraverso la propria madre, scopre che la donna non ha il sesso dell’uomo, la bambina rinuncia al valore della sua identità femminile per volgersi al padre, all’uomo, e ottenerne il pene per procura. Tutta la sua energia sarebbe al servizio di tale conquista del sesso maschile. Anche il concepimento e la generazione del bambino avrebbero come fine l’appropriazione del pene o del fallo e, per questo motivo, un neonato maschio sarebbe preferito ad una femmina. Quindi un matrimonio non potrebbe dirsi riuscito, nè una donna divenire una buona moglie, che dopo aver dato al proprio marito un neonato maschio. Oggi una spiegazione di questo tipo farà ridere alcune ed anche alcuni. Qualche anno fa, appena venti, ero tra coloro  che sottolineavano questo maschilismo allucinante della nostra cultura, di cui ridevamo e che veniva escluso dalle aule d’università. Le cose da allora non sono ancora tanto chiare come potrebbe sembrare. Certo, si è fatta un poco di luce ma, se la teoria freudiana è maschilista, lo è in quanto riproduce l’ordine socio-culturale esistente: Freud, in questo senso, non ha inventato il maschilismo, l’ha constatato.

Ciò su cui si arena, come Simone de Beauvoir, sono i mezzi di guarigione: come lei, non riconosce l’altro in quanto altro e secondo un modo differente, tutti e due propongono di lasciare l’uomo quale unico modello di soggettività al quale la donna deve uguagliarsi. Uomo e donna, per mezzo di stragegie un po’ diverse l’un l’altra, devono dunque divenire simili. Questo ideale è conforme a quello della filosofia tradizionale che vuole un modello unico di soggettività, storicamente maschile.

Tuttalpiù, questo modello unico si assesterà su un gioco di equilibri tra l’uno e il multiplo, ma l’uno resta il modello che domina, più o meno scopertamente, la gerarchia dei multipli: il singolare è unico e/ma ideale, l’Uomo. La singolarità concreta non è che una copia, un’immagine. La visione platonica del mondo, la sua concezione della verità, è in certa misura invertita rispetto alla realtà empirica del quotidiano: voi vi reputate un’irripetibile realtà, ma non siete altro che una copia migliore o peggiore di un’idea perfetta di voi, situata fuori di voi. Anche in questo caso, prima di mettersi, prematuramente, a ridere, bisogna interrogare la pertinenza ancora attuale di una tale concezione del mondo: noi siamo figli della carne ma anche della parola, natura ma pure cultura.

E figli della cultura significa figli dell’idea, incarnazioni più o meno adeguate di un modello ideale. Sovente noi mimiamo, imitiamo come bambini ciò che percepiamo come ideale, per raggiungerlo. Tutti questi modi di essere o di fare sono platonici, conformi ad un’idea maschile della verità. Anche nel rovesciamento rappresentato dal privilegiare il molteplice rispetto all’uno, rovesciamento attuale soprattutto nel nome della democrazia, anche nel privilegio dell’altro sul soggetto, del tu rispetto all’io (penso per esempio a certe opere di Buber e ad una parte dell’opera di Lévinas in cui tali privilegi sono morali e teologici piuttosto che filosofici), restiamo all’interno del modello dissimulato dell’uno e del multiplo, dell’uno e dello stesso, cui un soggetto unico conferisce un senso piuttosto che un altro.

Allo stesso modo, privilegiare la singolarità concreta rispetto a quella ideale non basta a mettere in questione il privilegio di un universale valido per tutti e tutte. Infatti, qualsiasi singolarità concreta  non può promulgare un ideale valido per tutti e tutte e, per assicurare la convivenza tra soggetti, specialmente nella città, è necessario un minimo di universalità.

Per uscire dal modello dominante dell’uno e del molteplice, bisogna passare al due, un due che non sia due volte lo stesso, nè un grande ed un piccolo, ma che consista di due realmente differenti. Il paradigma di questo due si trova nella differenza sessuale. Perchè là? Perchè vi si trovano due soggetti che non dovrebbero situarsi in un rapporto gerarchico, e perchè quei due soggetti hanno come compito la prosecuzione della specie umana e lo sviluppo della sua cultura nel rispetto delle reciproche differenze.

Il mio primo gesto teorico è stato dunque quello di disancorare il due dall’uno, il due dal multiplo, l’altro dallo stesso e di farlo « orizzontalmente », sospendendo l’autorità dell’Uno: dell’uomo, del padre, del capo, del dio unico, della verità unica, ecc. Si trattava di far emergere l’altro dallo stesso, di rifiutare di esser ridotta all’altro dello stesso, a un/ un’ altro/a dell’uno, non diventando lui o come lui, ma costituendomi come un soggetto autonomo differente. Evidentemente questo gesto mette in questione tutta la nostra tradizione teorica e pratica, in particolare il platonismo, senza di esso non possiamo parlare di liberazione della donna, nè di comportamento etico nei confronti dell’altro, nè di democrazia. Senza tale gesto, la filosofia stessa rischia la propria fine, vinta dall’uso della tecnica che, nella costituzione del logos, mina la soggettività dell’uomo, vittoria più rapida e facile se la donna non assicura il polo della natura che resiste alla techne maschile. L’esistenza di due soggetti è probabilmente la sola cosa che possa riportare il soggetto maschile al proprio essere. Per questo, bisognava liberare la soggettività femminile dal mondo dell’uomo e ammettere un tale scandalo filosofico: il soggetto non è uno nè unico.

Le mediazioni necessarie alla soggettività femminile

A questo soggetto femminile, appena delineato, senza contorni o bordi, senza norme nè mediazioni, bisognava poi, nello stesso tempo, dare qualche punto di riferimento per assicurarne la sussistenza e  il divenire. Dopo la fase critica del mio lavoro, riguardante una filosofia e una cultura monosoggettive, monosessuate, patriarcali e fallocratiche, ho dunque tentato di definire alcune specificità della soggettività femminile, necessarie alla sua affermazione in quanto tale, per evitare la ricaduta nell’indifferenziato, l’assoggettamento al soggetto unico. Una delle dimensioni importanti del divenire del soggetto femminile, e dunque del mio divenire, era quella di uscire da un potere genealogico unico, e di affermare: sono nata da un uomo e da una donna, e l’autorità genealogica appartiene all’uomo e alla donna. Bisognava dunque uscire dall’oblio delle genealogie femminili, non per rifiutare semplicemente l’esistenza del padre, ma per giungere alla realtà piena del due. Tuttavia, è vero che c’è voluto del tempo per ritrovare e ristabilire il due, e che non può trattarsi dell’opera di una sola donna.

Al di là della riscoperta e della riconciliazione con la genealogia (e le genealogie) femminile,  ancora lontana dall’essere compiuta – bisognava dotare la donna, le donne, di un linguaggio, d’immagini, di rappresentazioni loro confacenti: a livello culturale e anche religioso, visto che Dio è un grande partner del soggetto filosofico. Ho comiciato a farlo in Speculum e Questo sesso che non è uno, e ho continuato soprattutto in Sessi e parentele , Il tempo della differenza e Io tu noi. Ci sono specificità del mondo femminile, differente da quello maschile sia nel rapporto col linguaggio, sia nel rapporto col corpo ( con l’età, la salute, la bellezza e, certamente, con la maternità), in quello con il lavoro, con la natura e con il mondo della cultura. Due esempi: tento di mostrare che il dispiegarsi della vita è diverso per la donna e per l’uomo, perchè per lei è costituito da tappe corporee molto più nette- pubertà, perdita della verginità, maternità, menopausa- e richiede un divenire-soggetto più complesso di quello maschile. Sul piano lavorativo, ho esposto come la giustizia economico-sociale non consista solamente nell’applicazione della regola: parità lavorativa e salariale, ma anche rispetto e valorizzazione della donna nella scelta dei modi di produzione, della qualificazione professionale, dei rapporti sul posto di lavoro e del riconoscimento sociale del lavoro. In quelle opere ho, allo stesso modo, cominciato a parlare della necessità di diritti specifici per le donne. La loro  liberazione  non può proseguire senza passare per questa tappa, tanto dal punto di vista del riconoscimento sociale che da quello della crescita individuale e delle relazioni comunitarie, tra donne e tra donne e uomini: un grande interesse e una certa diffidenza hanno accompagnato queste posizioni in materia giuridica, un interesse da parte delle donne non specialiste nè femministe che percepivano l’importanza della posta in gioco, un interesse anche da parte delle femministe di alcuni paesi che già da lungo tempo si preoccupavano della necessità della mediazione del diritto per la liberazione umana e in particolare per quella delle donne.

Due correnti di donne invece si sono opposte. Le  ugualitariste non comprendono la necessità di diritti positivi per le donne; concordano sul conseguimento di diritti eguali a quellli degli uomini, sono pronte a lottare contro le discriminazioni ma non si interessano al fatto che le donne sono portate a fare scelte specifiche in confronto agli uomini, e che tali scelte non possono restare individuali nè private ma debbono essere garantite per legge: la libera scelta della maternità, la scelta dei ritmi di lavoro, quella della sessualità, quella che riguarderà i minori in caso di divorzio o separazione ma che è già attuale nei matrimoni multiculturali, in cui il diritto positivo non permette alle donne di passare dalla natura alla civiltà: la maggiorparte delle donne restano corpi-natura asserviti allo Stato, alla Chiesa, al padre e al marito, senza aver accesso allo status di persone civili responsabili di sè stesse e della propria comunità.

Questa necessità di diritti civili specificamente femminili è contestata anche da donne maggiormente sensibili ad una cultura politica  della differenza ma che ravvisano nella legge una forma di asservimento allo Stato. Ora, i diritti civili relativi alle persone rappresentano, al contrario, una garanzia, per i cittadini, della possibilità di opporsi al potere statale in quanto tale; mantengono una tensione tra gli individui e lo Stato e possono anche assicurare il passaggio da una società statale ad una società civile fondata sui diritti individuali delle persone. Non posso che auspicare che le donne comprendano e promuovano tale sfida dei diritti personali, sia perchè sono necessari per proteggere ed affermare la loro identità specifica, sia perchè (le donne) sono più preparate, in quanto soggettività femminili, ad interessarsi ai diritti relativi alle persone e ai rapporti inter-personali, piuttosto che ai diritti relativi ai beni: al possesso, alla proprietà, all’avere, diritti che occupano la  parte più ponderosa dei codici civili di stampo maschile. Si tratterebbe allora di completare i codici e le costituzioni esistenti con i diritti delle donne  e quelli  definiti secondo il loro genio, cioè al di là di una specificità sessuata, per i/le cittadini/e in quanto persone.

L’altro:uomo

Divenuta soggetto autonomo, la donna si trova ormai, a propria volta, condotta a situarsi in rapporto all’altro, e la specificità della sua identità la induce, all’interno del divenire soggettivo, a  privilegiare maggiormente la dimensione dell’alterità. La tradizione ha detto, della donna, che è la guardiana dell’amore, le ha imposto il dovere d’amare, e di farlo malgrado tutti i dolori dell’amore, senza spiegare mai perchè dovesse assicurare un tale compito. Certo, io non mi renderei mai complice di questo imperativo dell’amore, ma nemmeno di quello, che mi sembra complementare, dell’odio. Vi voglio piuttosto esporre i risultati di indagini sul modo di parlare delle bambine, delle adolescenti e delle donne, e proporvi un’interpretazione sulle particolarità del linguaggio al femminile (si rimanda a Io amo a te). Il linguaggio più attento all’altro è quello della bambina, che si rivolge all’altro – sua madre – chiedendole l’accordo su un’attività da svolgere assieme. « Mamma, vuoi giocare con me? » « Posso pettinarti »? In questi enunciati la bambina rispetta sempre l’esistenza di due soggetti , ciascuno dei quali ha diritto alla parola. Inoltre, ciò che lei propone è un’attività che implica i due soggetti. La bambina potrebbe, a questo proposito, servire da modello per tutti e tutte., anche per la madre che si rivolge alla figlia in questi termini: «  Fai le cose che devi, prima di guardare la televisione », «  Prendi il latte mentre torni da scuola » . La madre impartisce ordini alla figlia senza rispettare il diritto alla parola dei due soggetti, e non propone un fare insieme, a due. Curiosamente, la madre parla in altri termini al figlio maschio, rispettando innanzitutto la sua identità: «  Vuoi che venga a salutarti a letto, prima che ti addormenti? » Il bambino, lui, parla già come un piccolo capo: »Voglio giocare a pallone », «  Vorrei una macchinina ». In un certo senso, la madre da al bambino il tu che è  la figlia ad  attribuirle.

Perchè questo gusto del dialogo da parte della bambina? Senza dubbio perchè la donna, nata da una donna, con le proprietà e le qualità della donna, compresa quella di generare, e dunque la bambina, si trova, fin dalla nascita, situata in una relazione possibile con due soggetti. Questo spiegherebbe anche la sua predilezione per i bambolotti, sui quali riversa una nostalgia dialogica che non sempre la madre soddisfa. Ma questo primo partner di dialogo femminile, la bambina è destinata a perderlo, apprendendo una cultura in cui il soggetto è ancora e sempre maschile: lui, Lui, loro, che si tratti in senso stretto di genere linguistico o di metafore che si suppone rappresentino l’identità umana e il suo divenire. Nè la bambina nè l’adolescente rinunciano tuttavia alla relazione con l’altro. E dunque, quando devono formulare una frase con la preposizione con o l’avverbio insieme, le adolescenti, le studentesse, e buona parte delle donne adulte propendono per enunciati del tipo » Stasera uscirei con lui », « Vivremo sempre insieme »; i maschi invece diranno piuttosto: « Sono venuto con la mia moto » « Ho scritto questa frase con la mia matita » « Io e la mia chitarra siamo inseparabili ». Questa diversità di enunciati tra genere femminile e genere maschile si esprime in un modo o nell’altro nella maggior parte delle risposte rese ad una serie di domande che servivano a definire le specificità sessuate del linguaggio ( l’inchiesta era stata effettuata in diverse lingue e culture, in particolare neo-latine ed anglosassoni). All’alternativa tra  scelta maschile del rapporto soggetto/oggetto e scelta femminile del rapporto soggetto/soggetto si aggiungono altre caratteristiche: le donne privilegiano il presente o il futuro, la contiguità, l’avvenimento concreto, le relazioni nella differenza, l’essere-con, l’esse re( a) due; gli uomini invece privilegiano il passato, la metaforicità, la trasposizione astratta, le relazioni tra simili ma mediate da un rapporto con l’oggetto, i rapporti tra l’uno e il multiplo. Configurazioni soggettive e mondi diversi corrispondono dunque alla donna e all’uomo. E non si tratta solo di determinazioni socio-storiche di alienazione del femminile da ridurre rendendole uguali al maschile. Il linguaggio delle donne testimonia certamente alienazioni ed inerzie,  ma  manifesta pure una ricchezza propria che non ha nulla a che vedere con il linguaggio dell’uomo, soprattutto un gusto per l’intersoggettività che sarebbe dannoso abbandonare per un rapporto soggetto/oggetto difficilmente superabile da parte dell’uomo. Come, allora, portare il soggetto femminile e innanzitutto me stessa, a coltivare la divisione con l’altro senza alienazione? Il gesto da fare corrisponde a quello effettuato all’epoca di Speculum: far buon uso del rispetto dell’altro in quanto altro. Certamente io, noi,  abbiamo, come donne, la nostalgia del dialogo e della relazione, ma siamo arrivate a riconoscere l’altro come altro e a rivolgerci a lui o a lei in quanto tali? Non veramente e non ancora. In effetti le parole delle adolescenti e delle donne testimoniano una certa propensione al rapporto con l’altro ma anche il desiderio di un rapporto io-tu che non tiene sempre conto di chi è tu e del suo desiderio per lui o per lei. Così il soggetto femminile privilegia la relazione con l’altro genere, cosa che il soggetto maschile non fa. Questa priorità accordata al maschile come referente del dialogo testimonia, in parte, un’alienazione culturale ma manifesta egualmente diverse specificità del soggetto-donna. La donna conosce prima dell’uomo l’altro genere: lo genera lei stessa, lo accudisce fin dalla nascita, lo nutre col  proprio corpo, lo vive nell’amore. La sua relazione con la trascendenza dell’altro è, quindi, diversa da quella vissuta dall’uomo, per il quale lei resta sempre al di fuori, sempre contraddistinta dal mistero e dall’ambivalenza riguardanti l’origine, materna o paterna. La donna ha una relazione con l’uomo maggiormente legata a una distinzione carnale, ad un’esperienza sensibile, ad un vissuto immanente, anche nel generare. La donna fa esperienza dell’estraneità dell’altro  nell’estraneità del suo comportamento, nella resistenza che quello oppone ai suoi sogni e alle sue volontà, ma questa trascendenza la deve costruire nell’orizzontalità stessa, in una condivisione della vita che rispetta assolutamente l’altro in quanto tale e al di là di tutte le intuizioni, le sensazioni, le esperienze e le conoscenze che se ne può fare. Il suo gusto del dialogo rischia di concludersi con una riduzione dell’altro nel suo essere altro se non ne costitusce la trascendenza pura, in quanto a lei  irreducibile: per fusione, contiguità, empatia, mimesi. Ho tentato di tracciare il cammino di questa costruzione della trascendenza dell’altro in Io amo a te e Essere due. Ho mostrato che l’operazione del negativo, che abitualmente si esercita per passare ad un gradino superiore del divenire-sè, in un movimento dialettico tra sè e sè, doveva esercitarsi tra due soggetti, per impedire la riduzione del due all’uno, dell’altro allo stesso. Certo, si tratta ancora di un negativo applicato a me stessa, nel mio divenire soggettivo, ma per marcare l’irriducibilità dell’altro a me e non per riassorbirne l’alterità. In questo gesto, il soggetto rinuncia a essere uno e unico. Rispetta l’altro, il due, nella relazione intersoggettiva. Questo gesto va applicato prima di tutto alla relazione tra i generi,  perchè l’alterità vi esiste reale, consentendo la riarticolazione di natura e cultura in un rapporto più vero ed etico, superando la colpa essenziale al nostro divenire spirituale denunciata da Hegel a proposito dell’esclusione e della morte di Antigone (Hegel, cap. VI, Fenomenologia dello spirito)

Il passaggio storico dal soggetto uno ed unico all’esistenza di due soggetti di pari dignità e valore mi sembra un’impresa all’altezza delle donne,  sia a livello filosofico che politico.   Le donne, come ho già detto, sono maggiormente destinate alla relazione a due ed in particolare alla relazione con l’altro. Da tale specifica qualità della loro soggettività possono socchiudere l’orizzonte dell’uno, del simile e del multiplo per affermarsi come soggetto altro, ed imporre un due che non sia un secondo. Compiere la loro liberazione implica inoltre che esse riconoscano l’altro come altro, pena la riaffermazione della circolarità del soggetto unico. Riconoscere l’uomo come altro rappresenta si un’impresa etica certamente  alla  portata delle donne,  ma anche un’idispensabile tappa nella affermazione della loro autonomia. Inoltre l’uso necessario del negativo per realizzarla permette loro di passare dall’identità  naturale all’identità culturale e civile senza rinnegare la propria natura in virtù dell’appartenenza a un genere. Questo negativo interverrà in tutti i rapporti con l’altro: nelle parole – da qui Io amo a te – ma anche nella percezione , con la vista, l’udito e pure con il tatto. In essere due, ho provato a definire il nuovo modo di approcciarsi all’altro, anche  nella carezza. Portare a termine questa rivoluzione, rappresentata dal passaggio dall’affermazione di sè come altro al riconoscimento dell’uomo come altro rappresenta anche il gesto capace di sostenere la conoscenza di tutte le altre forme d’alterità, senza gerarchia, privilegi o autorità su di esse: che si tratti di razze, d’età , di culture o di religioni. Mettere il due invece di un uno nella differenza sessuale equivale dunque ad un gesto filosofico e politico decisivo, quello che rinuncia all’essere-uno o multiplo per passare all’esser-due come necessario fondamento di una nuova ontologia, di una nuova etica, di una nuova politica in cui l’altro è riconosciuto come altro e non come uno stesso: più grande, più piccolo, al massimo eguale a me.

Posted in femminismi, recensioni.


One Response

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  1. Doriana says

    grazie davvero!